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Reportage
27 agosto 2019 - Prima - Italia - Il Giornale
Tra gli sbarcati di Open arms. “Vite a rischio? Stavano bene”
P ing pong, calcio balilla e quando il caldo si attenua anche una partitella di calcio. Nell\\\\\\\'hotspot siciliano di Pozzallo dove nella notte fra venerdì e sabato sono arrivati i 72 migranti sbarcati dalla nave della Ong spagnola Open Arms non c\\\\\\\'è nessuno emaciato, sull\\\\\\\'orlo del suicidio, malato come sembrava grazie ad una martellante propaganda dei talebani dell\\\\\\\'accoglienza. «Macché disperazione. Stavano tutti bene. Nessuna situazione critica. Si nota dalla quantità di scabbia che si portano addosso, come abbiamo visto in passato. Non erano in condizioni simili», racconta una fonte in prima linea sul fronte dell\\\\\\\'immigrazione clandestina. Il Giornale è la prima testata ad ottenere (...)
(...) l\\\\\\\'autorizzazione del Viminale per entrare nell\\\\\\\'hotspot di Pozzallo più miracoloso di Lourdes. Rete metallica e cancellone, di fronte al Mediterraneo, dall\\\\\\\'esterno sembra un fortino. Una volta dentro, dopo il controllo dei soldati in mimetica della brigata Pozzuolo del Friuli, l\\\\\\\'atmosfera è di relax. Il primo gruppo di migranti reduce dalla Open Arms è impegnato in una dura partita di calcio balilla. All\\\\\\\'interno del capannone, su un tavolo di ping pong si sfidano altri sopravvissuti degli sbarchi imposti. Il dormitorio con letti a castello azzurri e lenzuola bianche latte è ordinato e pulitissimo. Una tv allieta gli ospiti nella sala mensa con tavolini e sedie di plastica. Non manca una zona preghiera dove i migranti musulmani si genuflettono in direzione della Mecca. Uomini e donne sembrano tutti in perfetta forma fisica senza evidenti problemi psichici documentati ripetutamente a bordo di Open Arms. Nonostante le limitazioni nelle riprese e foto i migranti non vedono l\\\\\\\'ora di fare un segno di vittoria o il pollice rialzato davanti all\\\\\\\'unico giornalista entrato nell\\\\\\\'hotspot.
Da Open Arms sono arrivati dalla Libia, Costa D\\\\\\\'Avorio, Etiopia, Eritrea, Gambia, Sudan, Nigeria, Guinea, Camerun e Liberia. Nessun siriano, che pure c\\\\\\\'erano e sono stati intervistati come veri profughi di guerra. Peccato che almeno tre siriani fossero scafisti o qualcosa di più e potrebbero essere stati fermati. Alì al Walidi, un libico di 26 anni, con vecchie ferite di proiettile ad una gamba, racconta di essere salpato con altri 38 su un barcone di legno. «Il capitano era un siriano e due connazionali lo aiutavano - spiega uno dei migranti di Open Arms -. I trafficanti gli hanno dato una bussola e un telefono Thuraya (satellitare, nda). Ci aveva detto: «Andiamo fino a Lampedusa». Il giorno dopo la partenza il mare si ingrossa e perdono la rotta. «Il capitano chiamava con il Thuraya i trafficanti in Libia e poi dei numeri già memorizzati dei soccorsi», racconta Al Walid. I numeri potrebbero essere di Alarm Phone, il centralino dei migranti, che poi allerta le nave delle Ong e dei centri di soccorso governativi a Roma e a Malta. Non a caso dopo un po\\\\\\\' il barcone viene sorvolato da un elicottero militare e in seguito arriva Open Arms, che li prende tutti a bordo. Il libico che aspira all\\\\\\\'asilo ammette: «Non stavamo affondando, ma eravamo tutti bagnati e impauriti».
Gli ospiti dell\\\\\\\'hotspot di Pozzallo sono tutti destinati alla redistribuzione nei Paesi europei che si sono fatti avanti come Francia e Germania. Tutti hanno chiesto la protezione umanitaria come se fossero imbeccati. «I nigeriani sbarcati da Open Arms stanno raccontando che erano minacciati da Boko Haram (costola locale dell\\\\\\\'Isis, ndr), ma si scopre che parlano un dialetto del sud, assolutamente tranquillo e non della aree del Nord-Est del Paese minacciate dai terroristi», spiega la fonte del Giornale in prima linea. Per evitare che la bufala venga svelata si inventano che il padre, con tutta la famiglia, è un militare trasferito a Maiduguri dove Boko Haram ha seminato morte e distruzione. Sei migranti sbarcati da Open Arms sono arrivati dal Ghana, uno dei Paesi africani modello di pace e democrazia. Altri provengono da nazioni dove la situazione politica e sociale sta evolvendo in meglio. Se non ci sono conflitti l\\\\\\\'asso nella manica è denunciare la discriminazione in quanto gay. «Adesso propongono la storia dell\\\\\\\'omosessualità attribuita - rivela la nostra fonte -. I migranti sostengono che amano le donne, ma avendo bisogno di soldi si erano prestati a rapporti omosessuali. Sono stati scoperti e hanno dovuto fuggire».
Fra gli ospiti della struttura di Pozzallo ci sarà sicuramente chi ha veramente diritto all\\\\\\\'asilo, ma lo stabiliranno i Paesi europei disponibili alla redistribuzione. Una coppia di etiopi recuperati da Open Arms, che si sono conosciuti sulla via della fuga in Sudan prima dell\\\\\\\'odissea libica, raccontano di avere pagato circa 900 euro per la traversata. Il marito, A. T., spiega che i trafficanti prima di farli salpare dalla Tripolitania assicuravano: «Non preoccupatevi. Partite con il gommone, ma poi qualcuno dall\\\\\\\'Italia vi soccorre». E aggiunge: «Open Arms ci ha trovato di notte quando cominciavamo ad imbarcare acqua».
La coppia di etiopi ammette: «Solo se ci avessero riportati in Libia eravamo tutti decisi a gettarci in mare. Per noi andava bene lo sbarco non solo in Italia, ma in qualsiasi Paese europeo compresi Spagna o Francia». Però Open Arms ha puntato i piedi dopo l\\\\\\\'offerta di Madrid di un porto sicuro. L\\\\\\\'aspetto più paradossale lo rivela, Abdelwahid Ibrahim, che viene dal Chad, al suo secondo sbarco in Italia. Il migrante arrivato a bordo di nave Gregoretti della Guardia costiera il 31 luglio parla all\\\\\\\'esterno dell\\\\\\\'hotspot.
«I trafficanti scelgono alcuni migranti come scafisti non facendoli pagare la traversata - spiega in buon italiano -. E sanno grazie a delle app dove si trovano le navi delle Ong, come Open Arms o Sea Watch, al largo della Libia. In base alla loro posizione fanno partire il gommone».
[continua]

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05 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Virus, il fronte che resiste in Friuli-Venezia Giulia
Fausto Biloslavo TRIESTE - “Anche noi abbiamo paura. E’ un momento difficile per tutti, ma dobbiamo fare il nostro dovere con la maggiore dedizione possibile” spiega Demis Pizzolitto, veterano delle ambulanze del 118 nel capoluogo giuliano lanciate nella “guerra” contro il virus maledetto. La battaglia quotidiana inizia con la vestizione: tuta bianca, doppi guanti, visiera e mascherina per difendersi dal contagio. Il veterano è in coppia con Fabio Tripodi, una “recluta” arrivata da poco, ma subito spedita al fronte. Le due tute bianche si lanciano nella mischia armati di barella per i pazienti Covid. “Mi è rimasta impressa una signora anziana, positiva al virus, che abbiamo trasportato di notte - racconta l’infermiere Pizzolitto - In ambulanza mi ha raccontato del marito invalido rimasto a casa. E soffriva all’idea di averlo lasciato solo con la paura che nessuno si sarebbe occupato di lui”. Bardati come due marziani spariscono nell’ospedale Maggiore di Trieste, dove sono ricoverati un centinaio di positivi, per trasferire un infetto che ha bisogno di maggiori cure. Quando tornano caricano dietro la barella e si chiudono dentro l’ambulanza con il paziente semi incosciente. Si vede solo il volto scavato che spunta dalle lenzuola bianche. Poi via a sirene spiegate verso l’ospedale di Cattinara, dove la terapia intensiva è l’ultima trincea per fermare il virus. Il Friuli-Venezia Giulia è il fronte del Nord Est che resiste al virus grazie a restrizioni draconiane, anche se negli ultimi giorni la gente comincia ad uscire troppo di casa. Un decimo della popolazione rispetto alla Lombardia ha aiutato a evitare l’inferno di Bergamo e Brescia. Il 4 aprile i contagiati erano 1986, i decessi 145, le guarigioni 220 e 1103 persone si trovano in isolamento a casa. Anche in Friuli-Venezia Giulia, come in gran parte d’Italia, le protezioni individuali per chi combatte il virus non bastano mai. “Siamo messi molto male. Le stiamo centellinando. Più che con le mascherine abbiamo avuto grandi difficoltà con visiere, occhiali e tute” ammette Antonio Poggiana, direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste e Gorizia. Negli ultimi giorni sono arrivate nuove forniture, ma l’emergenza riguarda anche le residenze per anziani, flagellate dal virus. “Sono “bombe” virali innescate - spiega Alberto Peratoner responsabile del 118 - Muoiono molti più anziani di quelli certificati, anche 4-5 al giorno, ma non vengono fatti i tamponi”. Nell’ospedale di Cattinara “la terapia intensiva è la prima linea di risposta contro il virus, il nemico invisibile che stiamo combattendo ogni giorno” spiega Umberto Lucangelo, direttore del dipartimento di emergenza. Borse sotto gli occhi vive in ospedale e da separato in casa con la moglie per evitare qualsiasi rischio. Nella trincea sanitaria l’emergenza si tocca con mano. Barbara si prepara con la tuta anti contagio che la copre dalla testa ai piedi. Un’altra infermiera chiude tutti i possibili spiragli delle cerniere con larghe strisce di cerotto, come nei film. Simile ad un “palombaro” le scrivono sulla schiena il nome e l’orario di ingresso con un pennarello nero. Poi Barbara procede in un’anticamera con una porta a vetri. E quando è completamente isolata allarga le braccia e si apre l’ingresso del campo di battaglia. Ventuno pazienti intubati lottano contro la morte grazie agli angeli in tuta bianca che non li mollano un secondo, giorno e notte. L’anziano con la chioma argento sembra solo addormentato se non fosse per l’infinità di cannule infilate nel corpo, sensori e macchinari che pulsano attorno. Una signora è coperta da un telo blu e come tutti i pazienti critici ripresa dalle telecamere a circuito chiuso. Mara, occhioni neri, visiera e mascherina spunta da dietro la vetrata protettiva con uno sguardo di speranza. All’interfono racconta l’emozione “del primo ragazzo che sono riuscito a svegliare. Quando mi ha visto ha alzato entrambi i pollici in segno di ok”. E se qualcuno non ce la fa Mara spiega “che siamo preparati ad accompagnare le persone verso la morte nella maniera più dignitosa. Io le tengo per mano per non lasciarle sole fino all’ultimo momento”. Erica Venier, la capo turno, vuole ringraziare “con tutto il cuore” i triestini che ogni giorno fanno arrivare dolci, frutta, generi di conforto ai combattenti della terapia intensiva. Graziano Di Gregorio, infermiere del turno mattutino, è un veterano: “Dopo 22 anni di esperienza non avrei mai pensato di trovarmi in una trincea del genere”. Il fiore all’occhiello della rianimazione di Cattinara è di non aver perso un solo paziente, ma Di Gregorio racconta: “Infermieri di altre terapie intensive hanno dovuto dare l’estrema unzione perchè i pazienti sono soli e non si può fare diversamente”. L’azienda sanitaria sta acquistando una trentina di tablet per cercare di mantenere un contatto con i familiari e permettere l’estremo saluto. Prima di venire intubati, l’ultima spiaggia, i contagiati che hanno difficoltà a respirare sono aiutati con maschere o caschi in un altro reparto. Il direttore, Marco Confalonieri, racconta: “Mio nonno era un ragazzo del ’99, che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale. Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Sono i ragazzi del ’99 di questa guerra”.

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16 febbraio 2007 | Otto e Mezzo | reportage
Foibe, conflitto sulla storia
Foibe, conflitto sulla storia

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07 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Parla il sopravvissuto al virus
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il sopravvissuto sta sbucciando un’arancia seduto sul letto di ospedale, come se non fosse rispuntato da poco dall’anticamera dell’inferno. Maglietta grigia, speranza dipinta negli occhi, Giovanni Ziliani è stato dimesso mercoledì, per tornare a casa. Quarantadue anni, atleta e istruttore di arti marziali ai bambini, il 10 marzo ha iniziato a stare male nella sua città, Cremona. Cinque giorni dopo è finito in terapia intensiva. Dalla Lombardia l’hanno trasferito a Trieste, dove un tubo in gola gli pompava aria nei polmoni devastati dall’infezione. Dopo 17 giorni di calvario è tornato a vivere, non più contagioso. Cosa ricorda di questa discesa all’inferno? “Non volevo dormire perchè avevo paura di smettere di respirare. Ricordo il tubo in gola, come dovevo convivere con il dolore, gli sforzi di vomito ogni volta che cercavo di deglutire. E gli occhi arrossati che bruciavano. Quando mi sono svegliato, ancora intubato, ero spaventato, disorientato. La sensazione è di impotenza sul proprio corpo. Ti rendi conto che dipendi da fili, tubi, macchine. E che la cosa più naturale del mondo, respirare, non lo è più”. Dove ha trovato la forza? “Mi sono aggrappato alla famiglia, ai valori veri. Al ricordo di mia moglie, in cinta da otto mesi e di nostra figlia di 7 anni. Ti aggrappi a quello che conta nella vita. E poi c’erano gli angeli in tuta bianca che mi hanno fatto rinascere”. Gli operatori sanitari dell’ospedale? “Sì, medici ed infermieri che ti aiutano e confortano in ogni modo. Volevo comunicare, ma non ci riuscivo perchè avevo un tubo in gola. Hanno provato a farmi scrivere, ma ero talmente debole che non ero in grado. Allora mi hanno portato un foglio plastificato con l’alfabeto e digitavo le lettere per comporre le parole”. Il momento che non dimenticherà mai? “Quando mi hanno estubato. E’ stata una festa. E quando ero in grado di parlare la prima cosa che hanno fatto è una chiamata in viva voce con mia moglie. Dopo tanti giorni fra la vita e la morte è stato un momento bellissimo”. Come ha recuperato le forze? “Sono stato svezzato come si fa con i vitellini. Dopo tanto tempo con il sondino per l’alimentazione mi hanno somministrato in bocca del tè caldo con una piccola siringa. Non ero solo un paziente che dovevano curare. Mi sono sentito accudito”. Come è stato infettato? “Abbiamo preso il virus da papà, che purtroppo non ce l’ha fatta. Mio fratello è intubato a Varese non ancora fuori pericolo”. E la sua famiglia? “Moglie e figlia di 7 anni per fortuna sono negative. La mia signora è in attesa di Gabriele che nascerà fra un mese. Ed io sono rinato a Trieste”. Ha pensato di non farcela? “Ero stanco di stare male con la febbre sempre a 39,6. Speravo di addormentarmi in terapia intensiva e di risvegliarmi guarito. Non è andata proprio in questo modo, ma è finita così: una vittoria per tutti”.

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03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
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Professione Reporter di Guerra


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