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06 ottobre 2019 - Il fatto - Italia - Il Giornale
Il killer ha sparato 23 colpi E la madre chiede perdono
«H o sentito i primi 4-5 colpi. Ho impugnato l\'arma di ordinanza mettendo il colpo in canna. Poi altre pistolettate. Pensavo che la Questura fosse sotto attacco», racconta al Giornale uno degli agenti nell\'edificio durante la mattanza di venerdì pomeriggio costata la vita a due poliziotti in servizio a Trieste. Un comunicato del questore, Giuseppe Petronzi e testimonianze inedite rendono più chiara la dinamica. Purtroppo, però, nonostante fossero state richieste, non c\'erano telecamere dove i poliziotti Pierluigi Rotta e Matteo Demenego sono stati uccisi da Alejandro Augusto Stephan Meran, un dominicano con permesso di soggiorno decennale.
Venerdì mattina una donna denuncia che un ragazzo di colore le ha rubato il motorino. Nel pomeriggio, Carlysle Stephan Meran, chiama la Questura spiegando che il fratello, Alejandro, è il responsabile del furto e vogliono restituire il maltolto. «Due equipaggi in servizio di Volante e una pattuglia della Squadra Mobile» si recano a casa dei dominicani, dove trovano il «ricercato, che appare collaborativo e pacato». Senza precedenti penali rischia al massimo una denuncia a piede libero. Gli agenti Rotta e Demenego lo accompagnano assieme al fratello nell\'Ufficio di prevenzione generale della Questura senza le manette ai polsi. Il corpulento Alejandro chiede: «Posso andare in bagno?». L\'agente scelto Rotta lo accompagna e all\'uscita il dominicano prende la pistola dell\'agente. La vecchia fondina in cuoio bianco non ha sistemi per evitare estrazioni non volute. Il colpo della Beretta calibro 9 deve essere in canna, come si usa per un fermo e probabilmente la sicura non è inserita. Il fermato spara «due colpi al lato sinistro del petto e all\'addome» uccidendo Rotta. L\'altro agente in ufficio a pochi passi, scatta verso il bagno, ma viene subito colpito «sotto la clavicola sinistra, al fianco sinistro e alla schiena». Il killer per prendere la pistola di Demenego fa a pezzi la fondina in kevlar che ha un sistema di bloccaggio. La mattanza avviene in un attimo con 5 colpi sparati in successione. I corpi delle vittime verranno trovati a un metro e mezzo uno dall\'altro in un lago di sangue.
Il fratello dell\'omicida si chiude «nella stanza impaurito, sotto shock e temendo per la propria incolumità, sbarrando la porta con una scrivania». L\'assassino cerca di imboccare le scale per salire ai piani superiori e spara a dei poliziotti che bloccano il passaggio. Le telecamere dell\'atrio lo inquadrano «con due pistole in mano come se fosse in un film sul Far West». L\'assassino spara per aprirsi un varco verso l\'uscita, almeno 23 colpi. Un proiettile ferisce un agente alla mano sinistra, che risponde al fuoco, ma non colpisce il killer. Una volta in strada il dominicano cerca di scappare con un\'auto della polizia. Una volante lo affronta. Alejandro spara e colpisce la macchina, ma gli agenti colpiscono l\'assassino all\'inguine e lo catturano.
In Questura è stata portata anche la madre, Betania, rimasta però in auto all\'esterno durante il conflitto a fuoco. «Ho sentito gli spari e Augusto urlare - racconta -. Cosa posso dire ai familiari degli agenti? Non ci sono parole per confortare un dolore così. Mio figlio ha dei problemi mentali». La fidanzata di Rotta è anche lei una poliziotta. La madre giunta a Trieste da Pozzuoli chiede «giustizia». Il fratello curava il killer con psicofarmaci, ma nel capoluogo giuliano «non è seguito dai servizi di igiene mentale», sostengono dalla Questura. Prima dell\'Italia aveva vissuto in Germania dove era in cura per problemi psichici. Interrogato Meran si è avvalso della facoltà di non rispondere. La Procura contesta l\'omicidio plurimo e il gip ha convalidato l\'arresto visti «i gravi indizi» a suo carico. Sequestrate le fondine e le armi dei due agenti morti. E proprio sulle fondine scoppia la polemica. Per il sindacato di polizia «erano difettose». Ma il Dipartimento di pubblica sicurezza parla di «odiose speculazioni». In tarda serata una fiaccolata silenziosa ha attraversato la città in memoria dei due agenti.
[continua]

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05 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Virus, il fronte che resiste in Friuli-Venezia Giulia
Fausto Biloslavo TRIESTE - “Anche noi abbiamo paura. E’ un momento difficile per tutti, ma dobbiamo fare il nostro dovere con la maggiore dedizione possibile” spiega Demis Pizzolitto, veterano delle ambulanze del 118 nel capoluogo giuliano lanciate nella “guerra” contro il virus maledetto. La battaglia quotidiana inizia con la vestizione: tuta bianca, doppi guanti, visiera e mascherina per difendersi dal contagio. Il veterano è in coppia con Fabio Tripodi, una “recluta” arrivata da poco, ma subito spedita al fronte. Le due tute bianche si lanciano nella mischia armati di barella per i pazienti Covid. “Mi è rimasta impressa una signora anziana, positiva al virus, che abbiamo trasportato di notte - racconta l’infermiere Pizzolitto - In ambulanza mi ha raccontato del marito invalido rimasto a casa. E soffriva all’idea di averlo lasciato solo con la paura che nessuno si sarebbe occupato di lui”. Bardati come due marziani spariscono nell’ospedale Maggiore di Trieste, dove sono ricoverati un centinaio di positivi, per trasferire un infetto che ha bisogno di maggiori cure. Quando tornano caricano dietro la barella e si chiudono dentro l’ambulanza con il paziente semi incosciente. Si vede solo il volto scavato che spunta dalle lenzuola bianche. Poi via a sirene spiegate verso l’ospedale di Cattinara, dove la terapia intensiva è l’ultima trincea per fermare il virus. Il Friuli-Venezia Giulia è il fronte del Nord Est che resiste al virus grazie a restrizioni draconiane, anche se negli ultimi giorni la gente comincia ad uscire troppo di casa. Un decimo della popolazione rispetto alla Lombardia ha aiutato a evitare l’inferno di Bergamo e Brescia. Il 4 aprile i contagiati erano 1986, i decessi 145, le guarigioni 220 e 1103 persone si trovano in isolamento a casa. Anche in Friuli-Venezia Giulia, come in gran parte d’Italia, le protezioni individuali per chi combatte il virus non bastano mai. “Siamo messi molto male. Le stiamo centellinando. Più che con le mascherine abbiamo avuto grandi difficoltà con visiere, occhiali e tute” ammette Antonio Poggiana, direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste e Gorizia. Negli ultimi giorni sono arrivate nuove forniture, ma l’emergenza riguarda anche le residenze per anziani, flagellate dal virus. “Sono “bombe” virali innescate - spiega Alberto Peratoner responsabile del 118 - Muoiono molti più anziani di quelli certificati, anche 4-5 al giorno, ma non vengono fatti i tamponi”. Nell’ospedale di Cattinara “la terapia intensiva è la prima linea di risposta contro il virus, il nemico invisibile che stiamo combattendo ogni giorno” spiega Umberto Lucangelo, direttore del dipartimento di emergenza. Borse sotto gli occhi vive in ospedale e da separato in casa con la moglie per evitare qualsiasi rischio. Nella trincea sanitaria l’emergenza si tocca con mano. Barbara si prepara con la tuta anti contagio che la copre dalla testa ai piedi. Un’altra infermiera chiude tutti i possibili spiragli delle cerniere con larghe strisce di cerotto, come nei film. Simile ad un “palombaro” le scrivono sulla schiena il nome e l’orario di ingresso con un pennarello nero. Poi Barbara procede in un’anticamera con una porta a vetri. E quando è completamente isolata allarga le braccia e si apre l’ingresso del campo di battaglia. Ventuno pazienti intubati lottano contro la morte grazie agli angeli in tuta bianca che non li mollano un secondo, giorno e notte. L’anziano con la chioma argento sembra solo addormentato se non fosse per l’infinità di cannule infilate nel corpo, sensori e macchinari che pulsano attorno. Una signora è coperta da un telo blu e come tutti i pazienti critici ripresa dalle telecamere a circuito chiuso. Mara, occhioni neri, visiera e mascherina spunta da dietro la vetrata protettiva con uno sguardo di speranza. All’interfono racconta l’emozione “del primo ragazzo che sono riuscito a svegliare. Quando mi ha visto ha alzato entrambi i pollici in segno di ok”. E se qualcuno non ce la fa Mara spiega “che siamo preparati ad accompagnare le persone verso la morte nella maniera più dignitosa. Io le tengo per mano per non lasciarle sole fino all’ultimo momento”. Erica Venier, la capo turno, vuole ringraziare “con tutto il cuore” i triestini che ogni giorno fanno arrivare dolci, frutta, generi di conforto ai combattenti della terapia intensiva. Graziano Di Gregorio, infermiere del turno mattutino, è un veterano: “Dopo 22 anni di esperienza non avrei mai pensato di trovarmi in una trincea del genere”. Il fiore all’occhiello della rianimazione di Cattinara è di non aver perso un solo paziente, ma Di Gregorio racconta: “Infermieri di altre terapie intensive hanno dovuto dare l’estrema unzione perchè i pazienti sono soli e non si può fare diversamente”. L’azienda sanitaria sta acquistando una trentina di tablet per cercare di mantenere un contatto con i familiari e permettere l’estremo saluto. Prima di venire intubati, l’ultima spiaggia, i contagiati che hanno difficoltà a respirare sono aiutati con maschere o caschi in un altro reparto. Il direttore, Marco Confalonieri, racconta: “Mio nonno era un ragazzo del ’99, che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale. Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Sono i ragazzi del ’99 di questa guerra”.

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16 febbraio 2007 | Otto e Mezzo | reportage
Foibe, conflitto sulla storia
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07 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Parla il sopravvissuto al virus
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il sopravvissuto sta sbucciando un’arancia seduto sul letto di ospedale, come se non fosse rispuntato da poco dall’anticamera dell’inferno. Maglietta grigia, speranza dipinta negli occhi, Giovanni Ziliani è stato dimesso mercoledì, per tornare a casa. Quarantadue anni, atleta e istruttore di arti marziali ai bambini, il 10 marzo ha iniziato a stare male nella sua città, Cremona. Cinque giorni dopo è finito in terapia intensiva. Dalla Lombardia l’hanno trasferito a Trieste, dove un tubo in gola gli pompava aria nei polmoni devastati dall’infezione. Dopo 17 giorni di calvario è tornato a vivere, non più contagioso. Cosa ricorda di questa discesa all’inferno? “Non volevo dormire perchè avevo paura di smettere di respirare. Ricordo il tubo in gola, come dovevo convivere con il dolore, gli sforzi di vomito ogni volta che cercavo di deglutire. E gli occhi arrossati che bruciavano. Quando mi sono svegliato, ancora intubato, ero spaventato, disorientato. La sensazione è di impotenza sul proprio corpo. Ti rendi conto che dipendi da fili, tubi, macchine. E che la cosa più naturale del mondo, respirare, non lo è più”. Dove ha trovato la forza? “Mi sono aggrappato alla famiglia, ai valori veri. Al ricordo di mia moglie, in cinta da otto mesi e di nostra figlia di 7 anni. Ti aggrappi a quello che conta nella vita. E poi c’erano gli angeli in tuta bianca che mi hanno fatto rinascere”. Gli operatori sanitari dell’ospedale? “Sì, medici ed infermieri che ti aiutano e confortano in ogni modo. Volevo comunicare, ma non ci riuscivo perchè avevo un tubo in gola. Hanno provato a farmi scrivere, ma ero talmente debole che non ero in grado. Allora mi hanno portato un foglio plastificato con l’alfabeto e digitavo le lettere per comporre le parole”. Il momento che non dimenticherà mai? “Quando mi hanno estubato. E’ stata una festa. E quando ero in grado di parlare la prima cosa che hanno fatto è una chiamata in viva voce con mia moglie. Dopo tanti giorni fra la vita e la morte è stato un momento bellissimo”. Come ha recuperato le forze? “Sono stato svezzato come si fa con i vitellini. Dopo tanto tempo con il sondino per l’alimentazione mi hanno somministrato in bocca del tè caldo con una piccola siringa. Non ero solo un paziente che dovevano curare. Mi sono sentito accudito”. Come è stato infettato? “Abbiamo preso il virus da papà, che purtroppo non ce l’ha fatta. Mio fratello è intubato a Varese non ancora fuori pericolo”. E la sua famiglia? “Moglie e figlia di 7 anni per fortuna sono negative. La mia signora è in attesa di Gabriele che nascerà fra un mese. Ed io sono rinato a Trieste”. Ha pensato di non farcela? “Ero stanco di stare male con la febbre sempre a 39,6. Speravo di addormentarmi in terapia intensiva e di risvegliarmi guarito. Non è andata proprio in questo modo, ma è finita così: una vittoria per tutti”.

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03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
Italia
Professione Reporter di Guerra


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