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Articolo
15 gennaio 2020 - Esteri - Mondo - Panorama |
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Quei soldati dimenticati dalla politica |
Fausto Biloslavo
In Iraq la “guerra” fra Iran e Usa, che sfiora il nostro contingente, non è finita: Teheran punta a cacciare gli americani dal paese con le buone o con le cattive. In Libia si spera nella pax del “sultano” Erdogan e dello “zar” Putin, ma le bombe sono cadute vicine ai nostri militari. In Afghanistan, la missione più dimenticata, il fortino italiano di Herat era in stato di massima allerta nei giorni caldi del braccio di ferro con gli ayatollah. In Africa, dove abbiamo dieci mini contingenti per un totale di 634 uomini, compresa la Libia e una base fissa a Gibuti, il terrorismo islamico si sta espandendo e colpisce molto vicino ai nostri soldati.
E’ allarme rosso per le missioni militari all’estero, ma ce ne accorgiamo solo ora e non siamo in grado di sfruttare veramente le nostre baionette nelle aree calde. “Con tutte le crisi aperte in queste ultime settimane pensavano ai vertici di maggioranza, ma non a sedersi attorno ad un tavolo per affrontare il presente ed il futuro delle missioni all’estero” denuncia a Panorama, Vincenzo Camporini, che è stato Capo di Stato maggiore della Difesa.
Il 3 gennaio i droni americani hanno eliminato il generale Qassem Soleimani, carismatico comandante dei Guardiani della rivoluzione scatenando la rappresaglia, senza vittime, degli iraniani con un lancio di missili balistici su obiettivi americani in Iraq. Cinque sono piombati nel nord, in Kurdistan, dove abbiamo il grosso dei 926 militari italiani impegnati nell’addestramento. I Patriot della difesa Usa hanno illuminato di rosso il cielo di Erbil intercettando il missile iraniano diretto sull’aeroporto dove la base americana è a 500 metri da quella italiana. Anche se i Pasdaran con le loro testate a guida satellitare avrebbero guidato i missili fuori bersaglio, come avvertimento, per non provocare vittime.
Assieme a Soleimani è stato eliminato Abu Mahdi al-Mohandes, vice capo delle Unità di mobilitazione popolare, il cartello delle milizie sciite in Iraq vicine all’Iran. I gruppi armati filo Teheran, che hanno dato il via ai venti di guerra con l’assalto all’ambasciata americana a Baghdad del 31 dicembre, saranno lo strumento della vera vendetta degli ayatollah. Qais al-Khazali, che si è fatto le ossa contro gli italiani a Nassiryah nel 2004, ha annunciato “l’eliminazione di tutta la presenza militare americana in Iraq”.
Non è un caso che il generale Paolo Attilio Fortezza, comandante dell’intera missione italiana in Iraq, sia stato trasferito dalla capitale a Erbil considerata più sicura. E per fare spazio al grosso dei 3mila uomini di rinforzo dell’82° divisione aviotrasportata Usa inviati a Baghdad, dove le milizie sciite stanno reclutando aspiranti kamikaze. E hanno già cominciato a lanciare razzi sulla zona verde super protetta, dove si trova anche l’ambasciata italiana.
Andrea Margelletti, presidente del Centro studi internazionali, era a Teheran nei giorni della rappresaglia degli ayatollah. “L’operazione iraniana è soprattutto politica - osserva l’esperto di geopolitica - Sanno bene che non reggerebbero in un conflitto totale con gli Stati Uniti, ma possono costringere gli americani ad andarsene grazie ad una decisione del governo iracheno”. Il generale in ausiliaria Marco Bertolini, veterano dei paracadutisti, sostiene che se “la missione di addestramento è congelata. E l’Isis non è più il nemico da affrontare tanto vale tornarcene a casa”.
Nel vicino Afghanistan, che confina con l’Iran, sono totalmente dimenticati gli 800 soldati italiani in gran parte chiusi nel fortino di Herat. “Abbiamo messo a rischio la sicurezza dei nostri ritirando un centinaio di uomini solo perchè i grillini volevano sventolarlo come bandiera. E i nodi sono venuti al pettine quando abbiamo elevato al massimo il livello di allerta per il timore della rappresaglia iraniana” dichiara una fonte militare di Panorama.
Il successore di Soleimani al comando della brigata Al Qods, specializzata in operazioni all’estero, è il generale Ismail Ghaani, che ha combattuto contro i talebani e operato nella parte occidentale del paese dove ci sono i nostri. “L’interesse degli iraniani è che talebani e americani si mettano d’accordo per il ritiro così li fanno andare via anche dai confini orientali” rivela Margelletti.
Il braccio di ferro Usa-Iran potrebbe coinvolgere anche i giannizzeri degli ayatollah del partito armato libanese Hezbollah. Nel sud del paese dei cedri, al confine con Israele, abbiamo 1076 militari, 278 mezzi terrestri e 6 mezzi aerei, che fanno parte dello schieramento di 10mila uomini della missione Onu comandata dal generale Stefano Del Col. “E’ l’unica operazione di interposizione, vera e propria - fa notare Bertolini - Se, prima o dopo, lo scontro con l’Iran si allargasse si rischia una nuova guerra fra Hezbollah e Israele, che scoppierà sulle teste dei caschi blu, come è già accaduto”.
L’altro fronte caldo, ma alle porte di casa, è la Libia. Il 12 gennaio è stata proposta una tregua dai turchi militarmente al fianco del governo di Fayez el Serraj a Tripoli e i russi che appoggiano attraverso i contractor della società Wagner appoggiano le truppe del generale Khalifa Haftar alle porte della capitale da aprile. L’Italia è rimasta con il cerino in mano perdendo la Libia. E i nostri 400 uomini sul terreno sono ancora più esposti e oramai malvisti da tutte e due le parti per l’inettitudine del governo a cominciare dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. In gennaio Haftar ha bombardato una caserma della milizia Nawassi a 800 metri da nave Pantelleria con una cinquantina di marinai, ormeggiata nella base navale di Abu Sitta a Tripoli in appoggio alla Guardia costiera libica nel contrasto all’immigrazione clandestina. “All’aeroporto di Misurata le bombe sono piombate anche a 300 metri con le schegge che di rimbalzo arrivavano nell’area del nostro ospedale militare” rivela una fonte impegnata nelle operazioni.
“Se mandi i soldati senza avere un disegno non dico strategico, ma di medio-lungo periodo lasci spazio ad altri e arrivano i turchi - denuncia Camporini - Non possiamo stupirci se alla fine ci sbatteranno fuori dal Libia. Anche l’Eni, nostro fiore all’occhiello, è a rischio e potrebbe venire scalzata”.
Bertolini mette il dito sulla piaga: “I combattenti in Libia hanno bisogno di armi, di supporto militare e noi non abbiamo voluto concederlo anche per le pastoie delle leggi nazionali che non tengono conto della realtà”. E sul ventilato blocco navale per fermare l’invio di armi, l’ex capo di Stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, spiega a Panorama che “un dispositivo di tale genere potrebbe essere messo in campo solo in presenza di un’unità di intenti quantomeno a livello europeo, che non esiste”.
In Africa, oltre alla Libia, abbiamo otto missioni “fantasma” sul fronte del terrorismo jihadista, che sta diventando sempre più minaccioso. In Somalia il generale Antonello De Sio comanda una missione di addestramento dell’Unione europea, che comprende 123 militari italiani. Il 28 dicembre l’ultima autobomba degli Al Shabaab, la costola locale di Al Qaida, ha fatto strage a Mogadiscio con 90 morti. Nella notte fra il 5 e 6 gennaio un commando suicida ha attaccato Camp Simba in Kenya, vicino al confine somalo, uccidendo tre americani. Anche gli italiani, sempre illesi, sono stati attaccati, l’ultima volta il 30 settembre a Mogadiscio, con un ordigno esplosivo.
In Mali e Repubblica Centrafricana sono presenti 22 soldati italiani impegnati nell’addestramento delle truppe che vengono sempre più falcidiate dai terroristi. Il contingente più grosso è in Niger con una previsione massima di 290 militari, 160 mezzi terrestri e 5 mezzi aerei. “Le missioni in Africa, a parte la Libia, hanno un valore diplomatico-militare, nulla di più - osserva Bertolini - In Niger siamo partiti con velleità nazionali per bloccare la porta sud dei migranti alla frontiera con la Libia, ma stiamo arrancando”. E rischiando non poco: il 10 dicembre 500 jihadisti hanno preso d’assalto un campo militare al confine con il Mali, uccidendo oltre 70 soldati. Il presidente Emmanuel Macron ha definito l’area del Sahel, infestata da Al Qaida e Isis, “un Afghanistan francese”, dopo la perdita di una ventina di militari negli ultimi mesi.
Il problema di fondo è che “il dibattito sui temi della politica estera e sicurezza internazionale è stato volutamente silenziato - spiega Paolo Quercia, docente di Studi strategici all’università di Perugia - Ed ora ci troviamo con un’opinione pubblica totalmente incapace di comprendere ruolo e funzione delle forze armate in un mondo divenuto chiaramente pericoloso e fuori controllo”. |
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18 ottobre 2019 | Sna | reportage
100 anni degli agenti di assicurazione
Il palco del Centenario Sna ha accolto anche Fausto Biloslavo, oggi certamente il più famoso e tenace reporter di guerra. Attraverso fotografie e filmati tratti dai suoi reportage nelle zone dei conflitti, Biloslavo ha raccontato la sua vicenda professionale, vissuta fra pericoli e situazioni al limite del disumano, testimonianfo anche l’orrore patito dalle popolazioni colpite dalla guerra. Affrontando il tema del coraggio, ha parlato del suo, che nonostante la quotidiana esposizione della sua vita a rischi estremi gli permette di non rinunciare a testimoniare la guerra e le sue tragiche e crudeli conseguenze. Ma il coraggio è anche di chi la guerra la subisce, diventando strumento per l’affermazione violenta delle ragioni di parte, ma non vuole rinunciare alla vita, alla speranza. E lottare per sopravvivere richiede grande coraggio.
Sebbene possa sembrare un parallelo azzardato, lo stesso Biloslavo, spiega che il coraggio è sostenuto dalla passione, elemento necessario in ogni attività, in quella del reporter di guerra come in quella dell’agente di assicurazione.
Il coraggio serve per cominciare da zero, ma anche per rialzarsi quando si è colpiti dalle difficoltà o per adattarsi ai cambiamenti, è il messaggio di Biloslavo alla platea del Centenario.
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16 giugno 2016 | Tgcom24 | reportage
Gli occhi della guerra, l’arte imperitura del reportage
Presentazione Gli occhi della guerra e del documentario "Profughi dimenticati" dal nord dell'iraq
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12 ottobre 2017 | Tele Capodistria | reportage
Gli occhi della guerra
"Gli occhi della guerra" sarà questo il tema della prossima puntata di Shaker, in onda venerdì 13 ottobre alle ore 20.
Nostro ospite FAUSTO BILOSLAVO, giornalista di guerra che, in oltre 35 anni, ha vissuto e raccontato in prima persona la situazione su tutti i fronti più caldi: Libano, Afghanistan, Iran, Iraq, ex Jugoslavia... e ultimamente Ucraina, Libia, Siria...
Cosa vuol dire fare il reporter di guerra? Com'è cambiato questo "mestiere"? Perchè è ancora così importante? Come mai tanti giovani vogliono farlo? Quali consigli dargli?
Tante le domande cui cercheremo di dare risposta.
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25 agosto 2010 | Radio 24 | intervento |
Mondo
Professione: Reporter di guerra
"NESSUN LUOGO E' LONTANO" è il nuovo programma di approfondimento di esteri di Radio 24. Giampaolo Musumeci parla della professione reporter. Come si racconta la guerra? Esiste un modo giusto? Come si fa il giornalista di guerra e come è cambiato il mestiere? Le testimonianze di chi lo ha fatto per anni e chi lo fa tuttora.
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06 luglio 2015 | Radio Capodistria | intervento |
Mondo
Non solo Califfato
Una panoramica della situazione internazionale e il ricordo di Franco Paticchio, grande Direttore ed Editore dimenticato
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22 ottobre 2009 | Radio24 | intervento |
Mondo
Libertà di stampa
In Italia la libertà di stampa è
sempre più in pericolo per colpa del
solito Cavalierenero,mentregli Stati
Uniti fanno unbalzo in avanti graziealnuovomessiademocraticoBarack
Obama. Lo stabilisce l’annuale
rapportodiReporterssansfrontières,
i giornalisticonil nasino all’insùche
considerano l’Italia alla stregua di
Bielorussia e Zimbabwe. Politicamentecorretti,
hannoelevatogliStati
Uniti dal 40˚ posto al 20˚, solo perché
non c’è più George W. Bush. E
declassato l’Italia al 49˚. Obama ha
incassato un Nobel per la pace preventivoeconquistatol’aureola
della
libertà di stampa.Nonche negli Usa
mancasse, ma è curioso che il 15
maggio proprio i Reporter senza
frontiere (Rsf) lanciavano strali contro
il nuovo inquilino della Casa
Bianca. «L’organizzazione è delusa
dalladecisionedelpresidente(Obama)
diporreilvetosullapubblicazione
delle 44 fotografie che ritraggono
l’esercitoamericanomentreabusae
torturai prigionieriafghanieiracheni
», si legge inuncomunicato di Rsf.
Jean-Francois Julliard, segretario
generalediRsf,ammettechenelbalzoinavantidegliUsahacontato
«l’effetto
Obama». Peccato che la Casa
Biancastiasparandocannonateverbalicontrola
tvFoxNewsreadicriticare
il presidente. «Non è più un organo
di informazione», «li tratteremocome
un partito d’opposizione»
hanno tuonato i portavoce. La Fox è
da tempo esclusa dalle interviste ad
Obama, limitata nell’accesso alle
fonti governative e ai suoi giornalisti
vengononegate ledomandedurantegliincontriconlastampaallaCasa
Bianca. L’editore dell’agguerrita tv è
RupertMurdoch.Rsfnonsimobilita
moltoper lasuaFoxnegli Usa,main
Italialodifende,considerandolominacciato
da Silvio Berlusconi.
Sui 175 Paesi nella classifica sulla
libertà di stampa siamo scivolati dal
35˚postodel 2007,quandoc’eraRomanoProdi,
al44˚delloscorsoanno
e al 49˚ odierno.Unabocciatura che
nonsi capisce benecomesalti fuori.
Nella classifica l’Italia si è beccata
12,4 voti negativi. I voti si basano su
un questionario, che è stato consegnato
a diverse decine di giornalisti,
professoriuniversitari,attivistideidirittiumanieavvocatidelnostroPaese.
Nonostante le richieste del Giornale
la lista dei «giurati» è segreta.
Peroraanchele12,4bacchettatesulla
libertà di stampa non sono state
ufficializzate. Sfogliando il facsimile
delquestionarioèovviocheinItaliai
giornalistinonvengonoammazzati,
torturatiosbattutiincarcerebuttandovia
la chiave.Comeaccadein Eritrea,
inTurkmenistaneinIran,gliultimi
tre Paesi della classifica di Rsf.
Nonèmaicapitatocheleforzearmateoilgoverno
abbianochiusoconla
forza giornali o televisioni, come si
chiede nel questionario.
SecondoRsf«lepressionidelCavaliere
sui media, le crescenti ingerenze
», ma pure «le violenze di mafia
controi giornalisticherivelano le attività
di quest’ultima eundisegno di
legge che ridurrebbe drasticamente
lapossibilitàperimediadipubblicareleintercettazionitelefoniche,
spiegano
perché l’Italia perda posizioni
per il secondo anno consecutivo».
Julliard, capoccia dell’organizzazione,
avevagiàannunciatoildeclassamento
in occasione della manifestazione
sulla libertà di stampa del 3
ottobre scorso a Roma. Al fianco di
SabinaGuzzanti,lacomicaantiCav,
minacciò:«Troppepressionisuimedia,
SilvioBerlusconirischiadi finire
nella lista dei predatori della libertà
di stampa» come la mafia. «L’Italia
nonguadagneràcertoposizioni»,avvertì.
Il preveggente francese ha però
sbagliato qualche calcolo. Il nostro
Paeseèstato retrocessoancheper le
querele miliardarie di Berlusconi a
Repubblica e altri giornali. ScorrendolaclassificadiRsfsiscoprechesiamo
stati battuti pure dal Sud Africa,
piazzato al 33˚ posto. Peccato che il
discutibile presidente sudafricano,
JacobZuma,abbia querelato perun
milione di dollari il vignettista JonathanShapiro.
Nonsolo:unprogrammasulla
satira è stato censuratodue
volte in tv,maZuma,si sa, èpiù simpatico
del Cav.
www.faustobiloslavo.eu
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08 dicembre 2010 | Nuova Spazio Radio | intervento |
Mondo
La fronda di Wikileaks
Oltre alle manette Julian Assange, fondatore di Wikileaks, deve preoccuparsi delle diserzioni della sua ciurma di pirati informatici e sostenitori. Negli ultimi mesi Assange ha perso per strada il suo braccio destro, il tedesco Daniel Domscheit-Berg ed Herbert Snorrason, il giovane hacker che teneva in piedi il sito nel “rifugio” islandese. Domscheit-Berg, ex hacker, è stato il principale portavoce di Assange per tre anni, con il nome falso di Daniel Schmitt. Ispiratore del Chaos computer club, una comunità di pirati informatici, ha cominciato ad entrare in rotta di collisione con il capo per le rivelazioni dei rapporti militari sulla guerra in Afghanistan. Non solo: Wikilekas sta operando in maniera così segreta da assomigliare sempre più alle intelligence che intende mascherare.
In Islanda la perdita più grave è quella della parlamentare Birgitta Jonsdottir, un’entusiasta della prima ora di Wikileaks. La deputata. che andrebbe d’accordo con Beppe Grillo, si batte per far passare una legge che trasformerebbe l’isola nel miglior rifugio per gente come Assange. Anche molte associazioni noprofit hanno preso le distanze, quando ha pubblicato i documenti della guerra in Afghanistan. Il discusso guru informatico non ha voluto emendare i nomi dei collaboratori della Nato, che adesso rischiano la vita. Prima fra tutti, a mollare l’australiano, è stata l’organizzazione di giornalisti, che pende a sinistra, Reporter senza frontiere.
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17 dicembre 2018 | Tracce Radio Rai FVG | intervento |
Mondo
Guerra guerra guerra
35 anni di reportage in prima linea
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