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03 giugno 2020 - Esteri - Italia - Panorama
Libia il bottino da spartire
Fausto Biloslavo
Aerei russi, altolà americano, militari turchi sempre più coinvolti, mercenari da tutte le latitudini e Italia fuori gioco. Non solo: sulla Libia travolta dal conflitto aleggia lo spettro della spartizione. L’uomo non più così forte della grande regione orientale della Cirenaica, Khalifa Haftar, rischia di venire cacciato dalla Tripolitania, a ovest, davanti all’avanzata del governo di Fayez el Serraj grazie al pesante appoggio militare del “sultano” Erdogan.
Il generale, che sta perdendo la battaglia per la conquista della capitale iniziata nell’aprile 2019, ha dichiarato la “guerra santa” annunciando che “gli interessi turchi sono obiettivi legittimi e non ci sarà alcuna pietà”. In soccorso ad Haftar è arrivata il 19 maggio nella base libica di al Jufra, una squadriglia di caccia bombardieri russi, sei Mig 29 e due Sukhoi 24, che sarebbero decollati da Astrakhan nel Caucaso settentrionale. Poi hanno fatto scalo in Iran diretti alla base di Hmeimim in Siria, dove sono stati ridipinti per evitare di identificarne l’origine. Un’altra pista è che siano stati venduti dalla Bielorussa agli Emirati arabi, gli alleati più irriducibili di Haftar. In entrambi i casi Mosca avrebbe dato il via libera all’operazione e ai comandi ci sarebbero ex piloti del blocco russo. I libici non hanno personale per aerei del genere.
“E’ una mossa di deterrenza: se Haftar viene espulso dalla Tripolitania nessuno deve sognarsi di superare la linea rossa marciando sulla Cirenaica” spiega una fonte diplomatica di Panorama a Tripoli. Il governo Serraj è ringalluzzito dalle vittorie. Nella capitale il portavoce del ministero degli Esteri, Mohamed Qablawi, ha ribadito l’intenzione di \"estendere il controllo della sicurezza su tutto il territorio libico compresa la Cirenaica”.
Il generale Stephen Townsend, che guida il comando americano Africom, è più netto sullo zampino di Mosca in difesa di Haftar: “La Russia sta chiaramente cercando di ribaltare la situazione a suo favore in Libia come abbiamo già visto in Siria”. In realtà il Cremlino se da una parte mostra i muscoli, dall’altra continua a trattare con i turchi per spartirsi l’influenza in Libia con telefonate fra i presidenti Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan oltre ai loro ministri degli Esteri. “Uno scenario di spartizione fra Tripolitania e Cirenaica è possibile, ma complicato dalla divisione delle risorse energetiche - fa notare Paolo Quercia, fondatore del centro studi CeNASS - La Casa Bianca, però, potrebbe lasciare carta bianca all’alleato turco, che sogna la Grandeur ottomana nel Mediterraneo, a parte che mantenga le distanze dalla Russia”.
A Mosca e i suoi alleati arabi come l’Egitto interessa il controllo della Cirenaica forziere petrolifero del paese. Il Cremlino vorrebbe un porto sul “mare nostrum” come Bengasi, dopo quello di Tartus in Siria. In questi scenari “l’Italia è rimasta la margine e appare fuori gioco” sottolinea Quercia. Per chi lavora come nostra “antenna” sul campo la rabbia è forte: “Abbiamo ceduto la Libia ai turchi senza battere ciglio. Il virus è stato un problema, ma pure una scusa per non occuparsi della crisi. Per l’Italia è un danno enorme”. Da Roma una fonte militare rincara la dose: “Il governo vuole ritirarsi dalla Libia? Che lo dica chiaramente e prenda una decisione chiara. Altrimenti il contingente italiano è a rischio”. La nave della Marina militare in appoggio della Guardia costiera a Tripoli ha dovuto per due volte negli ultimi mesi salpare verso il largo perchè erano esplosi proiettili di artiglieria di Haftar a soli 250 metri. A Misurata i 300 militari che presidiano l’ospedale da campo all’aeroporto vedono arrivare i rifornimenti bellici turchi e i voli che portano i “volontari” siriani reclutati e armati dal Mit, il servizio segreto di Ankara, per combattere in Libia. A seconda delle fonti si va da 3000 a 5000 uomini, ma anche i russi hanno cominciato a fare lo stesso inviando al fianco di Haftar i siriani filo Assad. “Quelli dei turchi a Misurata passano sotto il naso degli italiani - conferma una fonte di Panorama a Tripoli - E quando il generale sarà respinto in Cirenaica cosa faranno? I libici non li vogliono se non come carne da cannone. Piuttosto che tornare a casa gran parte andrà in Italia sui barconi”. E fra le reclute siriane dei turchi non mancano pericolosi jihadisti come Mohamed al-Ruwaidani catturato il 24 maggio dagli uomini di Haftar, che lo hanno immortalato in un video.
In prima linea l’autoproclamato Esercito nazionale libico del generale sta subendo una serie di rovesci iniziati con l’offensiva governativa di Pasqua, che ha ripreso il controllo di tutta la costa da Tripoli al confine con la Tunisia. I droni Bayraktar Tb2, prodotti dal genero di Erdogan e pilotati a distanza dai consiglieri militari turchi hanno aperto la strada alle truppe. I caccia ed i droni cinesi degli Emirati arabi, che appoggiano Haftar sono stati abbattuti o tenuti alla larga dalla flotta di Ankara davanti alla Tripolitania. Il 18 maggio è caduta la strategica base aera di al Watiya, puntello dell’assedio di Tripoli. La guerra elettronica e i bombardamenti turchi hanno reso inoffensivi i Pantsir S-1, sistemi di difesa aerea russi arrivati dagli Emirati. Uno dei semoventi catturato intatto è stato fatto sfilare come un trofeo nella strade di Tripoli.
Adesso toccherà a Tarhuna, l’ultima roccaforte di Haftar controllata dai fratelli al Khani a sud di Tripoli, che il governo vuole far crollare dall’interno con accordi sotto banco. Per questo motivo i mercenari russi e di altre ex repubbliche sovietiche del gruppo Wagner, circa 1400 uomini, si stanno riposizionando a sud di Bani Walid, un ex caposaldo di Gheddafi. Il generale Haftar potrebbe tentare un ultimo colpo di coda con un attacco verso Misurata, dove si trova il grosso del contingente italiano, ma i turchi farebbero intervenire i loro caccia bombardieri F-16.
Le vittorie governative hanno riportato sulla costa della Tripolitania “liberata” a Sabrata e Zhawia, hub di partenza dei migranti, i vecchi boss del traffico di esseri umani come El Gospi e Ahmed al-Dabbashi detto \'Ammu\' (lo zio). Non è un caso che solo in maggio oltre 1000 migranti abbiano cercato di raggiungere l’Italia e 400 siano stati riportati indietro dalla Guardia costiera libica secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni. Se non partono dalla Tripolitania i libici li muovono a piedi in Tunisia per farli imbarcare grazie ad accordi con i trafficanti locali.
E Malta, quando arrivano i barconi, li dirotta verso l’Italia. La piccola isola europea, istigata dai turchi, sta mettendo i bastoni fra le ruote alla già poco utile missione Irini bloccando la nomina del comandante in mare, che dovrebbe essere un greco. Ufficialmente i maltesi vogliono più aiuti per fronteggiare gli sbarchi dei migranti. L’operazione aeronavale Ue deve garantire l’embargo delle armi sotto il comando dell’ammiraglio italiano, Fabio Agostini dal quartier generale a Roma. A fine maggio poteva contare su una sola nave francese e due aeroplani ad elica. A breve dovrebbero arrivare a dare il cambio un’unità italiana e una greca. Per Fathi Bashaga, il ministro dell’interno del governo di Tripoli è “una missione illegale” perchè favorisce Haftar che riceve armi via terra dal confinante Egitto e con gli aerei da trasporto. Una fonte qualificata delle operazioni Ue rivela che Erdogan “sta tenendo sotto schiaffo l’Europa su entrambi i fronti dei migranti. Via terra lungo la rotta balcanica e sul mare con la presenza in Libia. Sono i turchi ad aprire i rubinetti degli arrivi”.
[continua]

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07 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Parla il sopravvissuto al virus
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il sopravvissuto sta sbucciando un’arancia seduto sul letto di ospedale, come se non fosse rispuntato da poco dall’anticamera dell’inferno. Maglietta grigia, speranza dipinta negli occhi, Giovanni Ziliani è stato dimesso mercoledì, per tornare a casa. Quarantadue anni, atleta e istruttore di arti marziali ai bambini, il 10 marzo ha iniziato a stare male nella sua città, Cremona. Cinque giorni dopo è finito in terapia intensiva. Dalla Lombardia l’hanno trasferito a Trieste, dove un tubo in gola gli pompava aria nei polmoni devastati dall’infezione. Dopo 17 giorni di calvario è tornato a vivere, non più contagioso. Cosa ricorda di questa discesa all’inferno? “Non volevo dormire perchè avevo paura di smettere di respirare. Ricordo il tubo in gola, come dovevo convivere con il dolore, gli sforzi di vomito ogni volta che cercavo di deglutire. E gli occhi arrossati che bruciavano. Quando mi sono svegliato, ancora intubato, ero spaventato, disorientato. La sensazione è di impotenza sul proprio corpo. Ti rendi conto che dipendi da fili, tubi, macchine. E che la cosa più naturale del mondo, respirare, non lo è più”. Dove ha trovato la forza? “Mi sono aggrappato alla famiglia, ai valori veri. Al ricordo di mia moglie, in cinta da otto mesi e di nostra figlia di 7 anni. Ti aggrappi a quello che conta nella vita. E poi c’erano gli angeli in tuta bianca che mi hanno fatto rinascere”. Gli operatori sanitari dell’ospedale? “Sì, medici ed infermieri che ti aiutano e confortano in ogni modo. Volevo comunicare, ma non ci riuscivo perchè avevo un tubo in gola. Hanno provato a farmi scrivere, ma ero talmente debole che non ero in grado. Allora mi hanno portato un foglio plastificato con l’alfabeto e digitavo le lettere per comporre le parole”. Il momento che non dimenticherà mai? “Quando mi hanno estubato. E’ stata una festa. E quando ero in grado di parlare la prima cosa che hanno fatto è una chiamata in viva voce con mia moglie. Dopo tanti giorni fra la vita e la morte è stato un momento bellissimo”. Come ha recuperato le forze? “Sono stato svezzato come si fa con i vitellini. Dopo tanto tempo con il sondino per l’alimentazione mi hanno somministrato in bocca del tè caldo con una piccola siringa. Non ero solo un paziente che dovevano curare. Mi sono sentito accudito”. Come è stato infettato? “Abbiamo preso il virus da papà, che purtroppo non ce l’ha fatta. Mio fratello è intubato a Varese non ancora fuori pericolo”. E la sua famiglia? “Moglie e figlia di 7 anni per fortuna sono negative. La mia signora è in attesa di Gabriele che nascerà fra un mese. Ed io sono rinato a Trieste”. Ha pensato di non farcela? “Ero stanco di stare male con la febbre sempre a 39,6. Speravo di addormentarmi in terapia intensiva e di risvegliarmi guarito. Non è andata proprio in questo modo, ma è finita così: una vittoria per tutti”.

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14 maggio 2020 | Tg5 | reportage
Trieste, Lampedusa del Nord Est
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il gruppetto è seduto sul bordo della strada asfaltata. Tutti maschi dai vent’anni in su, laceri, sporchi e inzuppati di pioggia sembrano sfiniti, ma chiedono subito “dov’è Trieste?”. Un chilometro più indietro passa il confine con la Slovenia. I migranti illegali sono appena arrivati, dopo giorni di marcia lungo la rotta balcanica. Non sembra il Carso triestino, ma la Bosnia nord occidentale da dove partono per arrivare a piedi in Italia. Scarpe di ginnastica, tute e qualche piumino non hanno neanche uno zainetto. Il più giovane è il capetto della decina di afghani, che abbiamo intercettato prima della polizia. Uno indossa una divisa mimetica probabilmente bosniaca, un altro ha un barbone e sguardo da talebano e la principale preoccupazione è “di non venire deportati” ovvero rimandati indietro. Non sanno che la Slovenia, causa virus, ha sospeso i respingimenti dall’Italia. Di nuovo in marcia i migranti tirano un sospiro di sollievo quando vedono un cartello stradale che indica Trieste. Il capetto alza la mano in segno di vittoria urlando da dove viene: “Afghanistan, Baghlan”, una provincia a nord di Kabul. Il 12 maggio sono arrivati in 160 in poche ore, in gran parte afghani e pachistani, il picco giornaliero dall’inizio dell’anno. La riapertura della rotta balcanica sul fronte del Nord Est è iniziata a fine aprile, in vista della fase 2 dell’emergenza virus. A Trieste sono stati rintracciati una media di 40 migranti al giorno. In Bosnia sarebbero in 7500 pronti a partire verso l’Italia. Il gruppetto di afghani viene preso in carico dai militari del reggimento Piemonte Cavalleria schierato sul confine con un centinaio di uomini per l’emergenza virus. Più avanti sullo stradone di ingresso in città, da dove si vede il capoluogo giuliano, la polizia sta intercettando altri migranti. Le volanti con il lampeggiante acceso “scortano” la colonna che si sta ingrossando con decine di giovani stanchi e affamati. Grazie ad un altoparlante viene spiegato in inglese di stare calmi e dirigersi verso il punto di raccolta sul ciglio della strada in attesa degli autobus per portarli via. Gli agenti con le mascherine controllano per prima cosa con i termometri a distanza la temperatura dei clandestini. Poi li perquisiscono uno ad uno e alla fine distribuiscono le mascherine ai migranti. Alla fine li fanno salire sugli autobus dell’azienda comunale dei trasporti cercando di non riempirli troppo per evitare focolai di contagio. “No virus, no virus” sostiene Rahibullah Sadiqi alzando i pollici verso l’alto in segno di vittoria. L’afghano è partito un anno fa dal suo paese e ha camminato per “dodici giorni dalla Bosnia, attraverso la Croazia e la Slovenia fino all’Italia”. Seduto per terra si è levato le scarpe e mostra i piedi doloranti. “I croati mi hanno rimandato indietro nove volte, ma adesso non c’era polizia e siamo passati tutti” spiega sorridendo dopo aver concluso “il gioco”, come i clandestini chiamano l’ultimo tratto della rotta balcanica. “Abbiamo registrato un crollo degli arrivi in marzo e per gran parte di aprile. Poi un’impennata alla fine dello scorso mese fino a metà maggio. L’impressione è che per i paesi della rotta balcanica nello stesso periodo sia avvenuta la fine del lockdown migratorio. In pratica hanno aperto i rubinetti per scaricare il peso dei flussi sull’Italia e sul Friuli-Venezia Giulia in particolare creando una situazione ingestibile anche dal punto di vista sanitario. E’ inaccettabile” spiega l'assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, che punta il dito contro la Slovenia. Lorenzo Tamaro, responsabile provinciale del Sindacato autonomo di polizia, denuncia “la carenza d’organico davanti all’emergenza dell’arrivo in massa di immigrati clandestini. Rinnoviamo l’appello per l’invio di uomini in rinforzo alla Polizia di frontiera”. In aprile circa il 30% dei migranti che stazionavano in Serbia è entrato in Bosnia grazie alla crisi pandemica, che ha distolto uomini ed energie dal controllo dei confini. Nella Bosnia occidentale non ci sono più i campi di raccolta, ma i migranti bivaccano nei boschi e passano più facilmente in Croazia dove la polizia ha dovuto gestire l’emergenza virus e pure un terremoto. Sul Carso anche l’esercito impegnato nell’operazione Strade sicure fa il possibile per tamponare l’arrivo dei migranti intercettai pure con i droni. A Fernetti sul valico con la Slovenia hanno montato un grosso tendone mimetico dove vengono portati i nuovi arrivati per i controlli sanitari. Il personale del 118 entra con le protezioni anti virus proprio per controllare che nessuno mostri i sintomi, come febbre e tosse, di un possibile contagio. Il Sap è preoccupato per l’emergenza sanitaria: “Non abbiamo strutture idonee ad accogliere un numero così elevato di persone. Servono più ambienti per poter isolare “casi sospetti” e non mettere a rischio contagio gli operatori di Polizia. Non siamo nemmeno adeguatamente muniti di mezzi per il trasporto dei migranti con le separazioni previste dall’emergenza virus”. Gli agenti impegnati sul terreno non sono autorizzati a parlare, ma a denti stretti ammettono: “Se va avanti così, in vista della bella stagione, la rotta balcanica rischia di esplodere. Saremo travolti dai migranti”. E Trieste potrebbe trasformarsi nella Lampedusa del Nord Est.

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30 aprile 2020 | Tg5 | reportage
L'anticamera dell'inferno
Fausto Biloslavo TRIESTE - “Per noi in prima linea c’è il timore che il ritorno alla vita normale auspicata da tutti possa portare a un aumento di contagi e dei ricoveri di persone in condizioni critiche” ammette Gianfranco, veterano degli infermieri bardato come un marziano per proteggersi dal virus. Dopo anni in pronto soccorso e terapia intensiva lavorava come ricercatore universitario, ma si è offerto volontario per combattere la pandemia. Lunedì si riapre, ma non dimentichiamo che registriamo ancora oltre 250 morti al giorno e quasi duemila nuovi positivi. I guariti aumentano e il contagio diminuisce, però 17.569 pazienti erano ricoverati con sintomi fino al primo maggio e 1578 in rianimazione. Per entrare nel reparto di pneumologia semi intensiva respiratoria dell’ospedale di Cattinara a Trieste bisogna seguire una minuziosa procedura di vestizione. Mascherina di massima protezione, tuta bianca, copri scarpe, doppi guanti e visiera per evitare il contagio. Andrea Valenti, responsabile infermieristico, è la guida nel reparto dove si continua a combattere, giorno e notte, per strappare i contagiati alla morte. Un grande open space con i pazienti più gravi collegati a scafandri o maschere che li aiutano a respirare e un nugolo di tute bianche che si spostano da un letto all’altro per monitorare o somministrare le terapie e dare conforto. Un contagiato con i capelli grigi tagliati a spazzola sembra quasi addormentato sotto il casco da marziano che pompa ossigeno. Davanti alla finestra sigillata un altro paziente che non riesce a parlare gesticola per indicare agli infermieri dove sente una fitta di dolore. Un signore cosciente, ma sfinito, con i tubi dell’ossigeno nel naso è collegato, come gli altri, a un monitor che segnala di continuo i parametri vitali. “Mi ha colpito un paziente che descriveva la sensazione terribile, più brutta del dolore, di non riuscire a respirare. Diceva che “è come se mi venisse incontro la morte”” racconta Marco Confalonieri direttore della struttura complessa di pneumologia e terapia intensiva respiratoria al dodicesimo piano della torre medica di Cattinara. La ventilazione non invasiva lascia cosciente il paziente che a Confalonieri ha raccontato come “bisogna diventare amico con la macchina, mettersi d’accordo con il ventilatore per uscire dal tunnel” e tornare alla vita. Una “resuscitata” è Vasilica, 67 anni, operatrice di origine romena di una casa di risposo di Trieste dove ha contratto il virus. “Ho passato un inferno collegata a questi tubi, sotto il casco, ma la voglia di vivere e di rivedere i miei nipoti, compreso l’ultimo che sta per nascere, ti fa sopportare tutto” spiega la donna occhialuta con una coperta sulle spalle, mascherina e tubo per l’ossigeno. La sopravvissuta ancora ansima quando parla del personale: “Sono angeli. Senza questi infermieri, medici, operatori sanitari sarei morta. Lottano ogni momento al nostro fianco”. Il rumore di fondo del reparto è il ronzio continuo delle macchine per l’ossigeno. L’ambiente è a pressione negativa per aspirare il virus e diminuire il pericolo, ma la ventilazione ai pazienti aumenta la dispersione di particelle infette. In 6 fra infermieri ed un medico sono stati contagiati. “Mi ha colpito la telefonata di Alessandra che piangendo ripeteva “non è colpa mia, non è colpa mia” - racconta Confalonieri con il volto coperto da occhialoni e maschera di protezione - Non aveva nessuna colpa, neppure sapeva come si è contagiata, ma si struggeva per dover lasciare soli i colleghi a fronteggiare il virus”. Nicol Vusio, operatrice sanitaria triestina di 29 anni, ha spiegato a suo figlio che “la mamma è in “guerra” per combattere un nemico invisibile e bisogna vincere”. Da dietro la visiera ammette: “Me l’aspettavo fin dalla prime notizie dalla Cina. Secondo me avremmo dovuto reagire molto prima”. Nicol racconta come bagna le labbra dei pazienti “che con gli occhi ti ringraziano”. I contagiati più gravi non riescono a parlare, ma gli operatori trovano il modo di comunicare. “Uno sguardo, la rotazione del capo, il movimento di una mano ti fa capire se il paziente vuole essere sollevato oppure girato su un fianco o se respira male” spiega Gianfranco, infermiere da 30 anni. Il direttore sottolinea che “il covid “cuoce” tutti gli organi, non solo il polmone e li fa collassare”, ma il reparto applica un protocollo basato sul cortisone che ha salvato una novantina di contagiati. Annamaria è una delle sopravvissute, ancora debole. Finalmente mangia da sola un piattino di pasta in bianco e con un mezzo sorriso annuncia la vittoria: “Il 7 maggio compio 79 anni”.

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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