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26 agosto 2020 - Esteri - Italia - Panorama
Rapiti dai genitori
“Ho conosciuto la mia ex moglie in Kazakistan, dove lavoravo nel settore energetico. Poi siamo venuti a Brindisi con Adelio, che aveva 1 anno e mezzo. Tutto sembrava normale. Il 28 ottobre 2015, all’improvviso, se ne è andata con nostro figlio” racconta a Panorama, Giovanni Bocci. E aggiunge che “da allora è iniziato l’incubo e la lotta per continuare a fare il padre di Adelio sottratta dalla madre tornata in Kazakistan”.
Uno dei tanti casi di “sottrazione internazionale di minore”, come la storia della madre di origine russa che ha “rapito” il figlio in vacanza con il padre in Costa Smeralda poco prima di Ferragosto. Panorama ha ricostruito alcune storie eclatanti che coinvolgono pure paesi dell’Unione europea, il Marocco e il buco nero del Giappone, dove i padri abbandonati non hanno di fatto diritti sulla prole.
“Alcune stati, in violazione alle norme internazionali sull’infanzia, non prevedono l’affido condiviso. In casi estremi  questa situazione può dare origine al “rapimento” di minori figli di separati” spiega l’avvocato Valentina Ruggiero. A Roma ha uno studio specializzato sui bambini contesi: “Anche con i paesi Ue, che rispettano la Convenzione dei diritti del fanciullo i tempi medi di soluzione durano anni. I genitori che hanno subito la sottrazione del minore sono distrutti sia psicologicamente, che economicamente”.
Nel 2019 la Farnesina ha trattato 518 casi di minori contesi “con una distribuzione geografica che conferma al primo posto l’Europa, seguita dalle Americhe, dal Mediterraneo e Medio Oriente, dall’Asia e, infine, dall’Africa”. I paesi Ue registrano 83 casi seguiti dai 39 bimbi portati oltreoceano e dal fanalino di coda dell’Africa con 7 figli sottratti. Alla Farnesina si riunisce regolarmente la “Task force minori contesi”, un gruppo di lavoro che coinvolge Interni e Giustizia. Le rappresentanze diplomatiche svolgono “funzioni di assistenza” ai genitori “left-behind” (lasciati indietro) “collaborano con le autorità locali” e “organizzano visite consolari per verificare lo stato di salute dei bambini”.
Spesso non basta, come denuncia il padre di Adelio Bocci, il bambino italiano di 7 anni sottratto dalla madre e portato a Taraz in Kazakistan. Nel 2018, l’allora ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, scriveva al suo omologo kazako, Kairat Abdrakhmanov: “Esprimo il mio vivo auspicio che sia rispettato il diritto  del piccolo Adelio e del padre Giovanni Paolo a intrattenere una relazione stabile e duratura senza l’influenza di fattori negativi, che possono compromettere il sereno sviluppo del bambino”.
La madre, Abraliyeva Aigul, è stata condannata a 2 anni di reclusione (senza condizionale) e alla sospensione della responsabilità genitoriale dal tribunale di Brindisi per avere “rapito” il bambino. “L’Interpol ha emesso una red notice (richiesta di arresto onda) nei suoi confronti e mio figlio ha una yellow notice, come bambino scomparso. Ma non succede niente pur sapendo bene, compresa la nostra ambasciata ad Astana, dove vive Adelio, in un fatiscente condominio dei tempi sovietici” sostiene il padre. Bocci non ce la fa più: “Devo insistere 10-20 volte per riuscire a parlare con mio figlio via whatsapp. Quando sono andato in Kazakistan per cercare di recuperarlo, la madre non voleva neppure farmelo vedere”.
Tre interrogazioni parlamentari si sono occupate del caso e il 28 luglio il padre disperato ha ottenuto una riposta, preconfezionata, da Palazzo Chigi. “Il Presidente Conte ha ricevuto la sua mail.
Desideriamo informarla di avere provveduto a inoltrare la sua lettera, e relativa documentazione, al Ministero degli Esteri per opportuna informazione e valutazione”. Bocci lamenta che “dopo la missiva di Moavero si è impantanato tutto. Soprattutto il ministero della Giustizia, ma anche gli Esteri non rispondono mai alle sollecitazioni neppure dei miei avvocati. Sono un padre avvilito, frustrato e abbandonato dallo Stato”.
L’ultima, eclatante, sottrazione di minore avviene l’11 agosto in Costa Smeralda. Alexandra Dubrova, manager internazionale con cittadinanza americana compie un vero e proprio blitz portando via la figlia di 8 anni al padre Nicola consulente per diverse aziende. I due si erano conosciuti proprio a Porto Cervo, mai sposati e il papà poteva tenere la figlia in vacanza nella villa dei nonni fino a settembre. In una versione reale del celebre film “La guerra dei Roses” lui accusa lei di avere assoldato un guardaspalle per malmenarlo e “rapire” la bambina. Lei smentisce e denuncia che il padre le ha messo le mani al collo. La madre è “fuggita” a Montecarlo con la figlia passando per la Corsica.
“La strada è lunga e complessa, ma esistono casi che si risolvono - spiega l’avvocato Ruggiero - Alcuni di collocamento dei minori ai genitori italiani con rimpatrio forzoso, altri con possibilità di incontrare i figli con modalità prestabilite. Quello che raccomando vivamente è attenzione ai trasferimenti dei minori in altri stati, anche per vacanze a tempo determinato.”
La “scusa” della vacanza è un classico per sottrarre il minore, ma a Roberto di Verona è capitato di peggio con la moglie, Fatima marocchina. Il caso, reso noto in tv dalle Iene, ha avuto, dopo quattro anni, un lieto fine con il ritorno in Italia dei due figli. La madre li aveva portati in Marocco di nascosto sottoponendoli a circoncisione con l’intenzione di farli diventare musulmani.
I numeri ufficiali di sottrazioni di minori riguardano solo i figli portati via dall’Italia ed i casi denunciati. “La punta dell’iceberg, ma presumibilmente sono molti di più” sostiene l’avvocato Ruggiero. Alcune stime parlano di 3mila casi, che coinvolgono un genitore italiano con sottrazione dei figli anche all’estero.
Il Giappone è un vero e proprio “buco nero” a causa di mentalità e tradizione che permettono il “rapimento” da parte della madre della prole. “I casi di sottrazione di minori in cui un genitore è cittadino europeo e l’altro giapponese sono in allarmante crescita” ha denunciato l’8 luglio il Parlamento europeo esprimendo “preoccupazione” per il mancato rispetto da parte di un
partner strategico dell\\\'Ue delle norme internazionali sulla sottrazione di minori.
Secondo l’associazione Kizuna, ogni anno sono almeno 150 mila i bambini separati dal padre o dalla madre in Giappone. Una ventina i genitori italiani. I tribunali danno quasi sempre ragione alla madre mantenendo lo status quo provocato dal “rapimento”. L’assemblea di Strasburgo ha approvato una risoluzione sul tema della deputata del partito Popolare, Dolors Montserrat, priva di obblighi vincolanti, ma che ha valore politico nei confronti del Giappone.
Uno dei fautori della risoluzione è Tommaso Perina, padre di Marcello e Sofia, di 7 e 5 anni, sottratti dalla madre nel 2016.  Manager italiano che vive in Giappone dal 2003, racconta che “ogni rapporto con i figli è letteralmente azzerato. I bambini non vedranno più il loro padre, se non un paio di volte all’anno per pochi minuti in presenza di un avvocato. Impossibile anche solo recapitare una lettera o consegnare un regalo di compleanno”.
Un altro caso assurdo riguarda la Grecia. Emilio Vincioni, bancario, viveva tranquillamente in provincia di Ancona con la moglie greca. Lei, quattro anni fa, in attesa di una bambina, vuole partorire in Grecia e convince il marito. Madre e figlia non tornano più in Italia e il papà viene tagliato completante fuori, pur costretto a versare un assegno mensile di mantenimento di 550 €. Vincioni è stato anche fermato dalla polizia ad Atene nel tentativo di conseganre un regalo di compleanno alla bambina. Il 22 luglio ha pubblicato su Facebook un video- appello invitando a scrivere alle autorità per ribadire che sua figlia “ha diritto a frequentare il ramo paterno (della famiglia) e di conoscere la cultura e la lingua italiana!”.
Un lato oscuro e drammatico del problema è legato al Califfato. Lo scorso novembre rientrava in Italia Alvin Berisha portato a Raqqa dalla madre albanese infatuata dallo Stato islamico. Il padre, Afrim, che viveva con la famiglia a Barzago, in provincia di Lecco, era andato a cercarlo in Siria.
Il primo è più tragico caso riguarda Ismail Davud, ufficialmente disperso nell’ex Califfato. Il padre, Ismar Mesinovic, che viveva a Longarone lo ha portato in Siria nel 2014, all’età di 3 anni, sottraendolo alla madre cubana convertita all’Islam. Ad Aleppo il genitore, di origine bosniaca, è morto combattendo al fianco dell’Isis. Davud è stato adottato da una famiglia del Sanjack, enclave musulmana in Serbia, che ha aderito allo Stato islamico. Secondo le ricerche di Panorama la nuova madre, Emina Plojovic sarebbe morta sotto un bombardamento russo o alleato durante la disfatta dell’Isis in Siria con i suoi 4 figli compreso Davud. La fonte è il marito, Rejhan, condannato in Serbia in contumacia per terrorismo a 9 anni e mezzo di carcere. I carabinieri del Ros cercano ancora Davud nella speranza che la versione del padre adottivo sia solo una copertura.
Fausto Biloslavo

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14 maggio 2020 | Tg5 | reportage
Trieste, Lampedusa del Nord Est
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il gruppetto è seduto sul bordo della strada asfaltata. Tutti maschi dai vent’anni in su, laceri, sporchi e inzuppati di pioggia sembrano sfiniti, ma chiedono subito “dov’è Trieste?”. Un chilometro più indietro passa il confine con la Slovenia. I migranti illegali sono appena arrivati, dopo giorni di marcia lungo la rotta balcanica. Non sembra il Carso triestino, ma la Bosnia nord occidentale da dove partono per arrivare a piedi in Italia. Scarpe di ginnastica, tute e qualche piumino non hanno neanche uno zainetto. Il più giovane è il capetto della decina di afghani, che abbiamo intercettato prima della polizia. Uno indossa una divisa mimetica probabilmente bosniaca, un altro ha un barbone e sguardo da talebano e la principale preoccupazione è “di non venire deportati” ovvero rimandati indietro. Non sanno che la Slovenia, causa virus, ha sospeso i respingimenti dall’Italia. Di nuovo in marcia i migranti tirano un sospiro di sollievo quando vedono un cartello stradale che indica Trieste. Il capetto alza la mano in segno di vittoria urlando da dove viene: “Afghanistan, Baghlan”, una provincia a nord di Kabul. Il 12 maggio sono arrivati in 160 in poche ore, in gran parte afghani e pachistani, il picco giornaliero dall’inizio dell’anno. La riapertura della rotta balcanica sul fronte del Nord Est è iniziata a fine aprile, in vista della fase 2 dell’emergenza virus. A Trieste sono stati rintracciati una media di 40 migranti al giorno. In Bosnia sarebbero in 7500 pronti a partire verso l’Italia. Il gruppetto di afghani viene preso in carico dai militari del reggimento Piemonte Cavalleria schierato sul confine con un centinaio di uomini per l’emergenza virus. Più avanti sullo stradone di ingresso in città, da dove si vede il capoluogo giuliano, la polizia sta intercettando altri migranti. Le volanti con il lampeggiante acceso “scortano” la colonna che si sta ingrossando con decine di giovani stanchi e affamati. Grazie ad un altoparlante viene spiegato in inglese di stare calmi e dirigersi verso il punto di raccolta sul ciglio della strada in attesa degli autobus per portarli via. Gli agenti con le mascherine controllano per prima cosa con i termometri a distanza la temperatura dei clandestini. Poi li perquisiscono uno ad uno e alla fine distribuiscono le mascherine ai migranti. Alla fine li fanno salire sugli autobus dell’azienda comunale dei trasporti cercando di non riempirli troppo per evitare focolai di contagio. “No virus, no virus” sostiene Rahibullah Sadiqi alzando i pollici verso l’alto in segno di vittoria. L’afghano è partito un anno fa dal suo paese e ha camminato per “dodici giorni dalla Bosnia, attraverso la Croazia e la Slovenia fino all’Italia”. Seduto per terra si è levato le scarpe e mostra i piedi doloranti. “I croati mi hanno rimandato indietro nove volte, ma adesso non c’era polizia e siamo passati tutti” spiega sorridendo dopo aver concluso “il gioco”, come i clandestini chiamano l’ultimo tratto della rotta balcanica. “Abbiamo registrato un crollo degli arrivi in marzo e per gran parte di aprile. Poi un’impennata alla fine dello scorso mese fino a metà maggio. L’impressione è che per i paesi della rotta balcanica nello stesso periodo sia avvenuta la fine del lockdown migratorio. In pratica hanno aperto i rubinetti per scaricare il peso dei flussi sull’Italia e sul Friuli-Venezia Giulia in particolare creando una situazione ingestibile anche dal punto di vista sanitario. E’ inaccettabile” spiega l'assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, che punta il dito contro la Slovenia. Lorenzo Tamaro, responsabile provinciale del Sindacato autonomo di polizia, denuncia “la carenza d’organico davanti all’emergenza dell’arrivo in massa di immigrati clandestini. Rinnoviamo l’appello per l’invio di uomini in rinforzo alla Polizia di frontiera”. In aprile circa il 30% dei migranti che stazionavano in Serbia è entrato in Bosnia grazie alla crisi pandemica, che ha distolto uomini ed energie dal controllo dei confini. Nella Bosnia occidentale non ci sono più i campi di raccolta, ma i migranti bivaccano nei boschi e passano più facilmente in Croazia dove la polizia ha dovuto gestire l’emergenza virus e pure un terremoto. Sul Carso anche l’esercito impegnato nell’operazione Strade sicure fa il possibile per tamponare l’arrivo dei migranti intercettai pure con i droni. A Fernetti sul valico con la Slovenia hanno montato un grosso tendone mimetico dove vengono portati i nuovi arrivati per i controlli sanitari. Il personale del 118 entra con le protezioni anti virus proprio per controllare che nessuno mostri i sintomi, come febbre e tosse, di un possibile contagio. Il Sap è preoccupato per l’emergenza sanitaria: “Non abbiamo strutture idonee ad accogliere un numero così elevato di persone. Servono più ambienti per poter isolare “casi sospetti” e non mettere a rischio contagio gli operatori di Polizia. Non siamo nemmeno adeguatamente muniti di mezzi per il trasporto dei migranti con le separazioni previste dall’emergenza virus”. Gli agenti impegnati sul terreno non sono autorizzati a parlare, ma a denti stretti ammettono: “Se va avanti così, in vista della bella stagione, la rotta balcanica rischia di esplodere. Saremo travolti dai migranti”. E Trieste potrebbe trasformarsi nella Lampedusa del Nord Est.

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31 ottobre 2021 | Quarta repubblica | reportage
No vax scontri al porto
I primi lacrimogeni rimbalzano sull'asfalto e arditi No Pass cercano di ributtarli verso il cordone dei carabinieri che sta avanzando per sgomberare il varco numero 4 del porto di Trieste. I manifestanti urlano di tutto «merde, vergogna» cercando pietre e bottiglie da lanciare contro le forze dell'ordine. Un attivista ingaggia lo scontro impossibile e viene travolto dalle manganellate. Una volta crollato a terra lo trascinano via oltre il loro cordone. Scene da battaglia urbana, il capoluogo giuliano non le vedeva da decenni. Portuali e No Pass presidiavano da venerdì l'ingresso più importante dello scalo per protestare contro l'introduzione obbligatoria del lasciapassare verde. In realtà i portuali, dopo varie spaccature, sono solo una trentina. Gli altri, che arriveranno fino a 1.500, sono antagonisti e anarchici, che vogliono la linea dura, molta gente venuta da fuori, più estremisti di destra. Alle 9 arrivano in massa le forze dell'ordine con camion-idranti e schiere di agenti in tenuta antisommossa. Una colonna blu che arriva da dentro il porto fino alla sbarra dell'ingresso. «Lo scalo è porto franco. Non potevano farlo. È una violazione del trattato pace (dello scorso secolo, nda)» tuona Stefano Puzzer detto Ciccio, il capopopolo dei portuali. Armati di pettorina gialla sono loro che si schierano in prima linea seduti a terra davanti ai cordoni di polizia. La resistenza è passiva e gli agenti usano gli idranti per cercare di far sloggiare la fila di portuali. Uno di loro viene preso in pieno da un getto d'acqua e cade a terra battendo la testa. Gli altri lo portano via a braccia. Un gruppo probabilmente buddista prega per evitare lo sgombero. Una signora si avvicina a mani giunte ai poliziotti implorando di retrocedere, ma altri sono più aggressivi e partono valanghe di insulti. Gli agenti avanzano al passo, metro dopo metro. I portuali fanno da cuscinetto per tentare di evitare incidenti più gravi convincendo la massa dei No Pass, che nulla hanno a che fare con lo scalo giuliano, di indietreggiare con calma. Una donna alza le mani cercando di fermare i poliziotti, altri fanno muro e la tensione sale alimentata dal getto degli idranti. «Guardateci siamo fascisti?» urla un militante ai poliziotti. Il nocciolo duro dell'estrema sinistra seguito da gran parte della piazza non vuole andarsene dal porto. Quando la trattativa con il capo della Digos fallisce la situazione degenera in scontro aperto. Diego, un cuoco No Pass, denuncia: «Hanno preso un mio amico, Vittorio, per i capelli, assestandogli una manganellata in faccia». Le forze dell'ordine sgomberano il valico, ma sul grande viale a ridosso scoppia la guerriglia. «Era gente pacifica che non ha alzato un dito - sbotta Puzzer - È un attacco squadrista». I più giovani sono scatenati e spostano i cassonetti dell'immondizia per bloccare la strada scatenando altre cariche degli agenti. Donne per nulla intimorite urlano «vergognatevi» ai carabinieri, che rimangono impassibili. In rete cominciano a venire pubblicati post terribili rivolti agli agenti: «Avete i giorni contati. Se sai dove vivono questi poliziotti vai a ucciderli».Non a caso interviene anche il presidente Sergio Mattarella: «Sorprende e addolora che proprio adesso, in cui vediamo una ripresa incoraggiante esplodano fenomeni di aggressiva contestazione». Uno dei portuali ammette: "Avevamo detto ai No Pass di indietreggiare quando le forze dell'ordine avanzavano ma non ci hanno ascoltati. Così la manifestazione pacifica è stata rovinata». Puzzer raduna le «truppe» e i rinforzi, 3mila persone, in piazza Unità d'Italia. E prende le distanze dagli oltranzisti: «Ci sono gruppi che non c'entrano con noi al porto che si stanno scontrando con le forze dell'ordine». Non è finita, oltre 100 irriducibili si scatenano nel quartiere di San Vito. E riescono a bloccare decine di camion diretti allo scalo con cassonetti dati alle fiamme in mezzo alla strada. Molti sono vestiti di nero con il volto coperto simili ai black bloc. La battaglia sul fronte del porto continua fino a sera.

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18 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
L'Islam nelle carceri
Sono circa 10mila i detenuti musulmani nelle carceri italiane. Soprattutto marocchini, tunisini algerini, ma non manca qualche afghano o iracheno. Nella stragrande maggioranza delinquenti comuni che si aggrappano alla fede per sopravvivere dietro le sbarre. Ma il pericolo del radicalismo islamico è sempre in agguato. Circa 80 detenuti musulmani con reati di terrorismo sono stati concentrati in quattro carceri: Macomer, Asti, Benevento e Rossano. Queste immagini esclusive mostrano la preghiera verso la Mecca nella sezione di Alta sicurezza 2 del carcere sardo di Macomer. Dove sono isolati personaggi come il convertito francese Raphael Gendron arrestato a Bari nel 2008 e Adel Ben Mabrouk uno dei tre tunisini catturati in Afghanistan, internati a Guantanamo e mandati in Italia dalla Casa Bianca. “Ci insultano per provocare lo scontro dandoci dei fascisti, razzisti, servi degli americani. Una volta hanno esultato urlando Allah o Akbar, quando dei soldati italiani sono morti in un attentato in Afghanistan” denunciano gli agenti della polizia penitenziaria. Nel carcere penale di Padova sono un centinaio i detenuti comuni musulmani che seguono le regole islamiche guidati dall’Imam fai da te Enhaji Abderrahman Fra i detenuti comuni non mancano storie drammatiche di guerra come quella di un giovane iracheno raccontata dall’educatrice del carcere Cinzia Sattin, che ha l’incubo di saltare in aria come la sua famiglia a causa di un attacco suicida. L’amministrazione penitenziaria mette a disposizione degli spazi per la preghiera e fornisce il vitto halal, secondo le regole musulmane. La fede nell’Islam serve a sopportare la detenzione. Molti condannano il terrorismo, ma c’è anche dell’altro....

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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