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22 gennaio 2021 - Sito - Italia - panorama.it
Per dare un nome ai resti dei Marò trucidati da Tito raccolti 18.000 euro
Fausto Biloslavo
Un ex Capo di stato maggiore della Difesa, l’Associazione degli incursori di Marina, ma anche i parenti di Norma Cossetto, la martire istriana violentata e infoibata dai partigiani di Tito, esuli, persone comuni e un folto gruppo di amici di Bologna hanno aderito alla raccolta fondi per l’identificazione dei resti dei marò trucidati ad Ossero, sull’isola di Cherso, alla fine della seconda guerra mondiale. Il 20 gennaio, un mese dopo il lancio dell’iniziativa della Comunità degli esuli di Lussino su panorama.it sono stati donati 17.950 euro. Pubblichiamo i nomi dei sostenitori del progetto, che punta a dare un nome e un cognome ai resti di 21 marò della X Mas e 6 militi italiani del battaglione Tramontana di Cherso, che hanno combattuto senza speranze nell’aprile 1945 contro l’avanzata dei partigiani di Tito sulle isole del Quarnero. Le ossa sono state riesumate 74 anni dopo da due fosse comuni dietro la chiesa di Ossero e traslate al sacrario dei caduti d’oltremare di Bari in 27 cassettine avvolte nel tricolore, ma catalogate come “caduto ignoto”. Per finanziare l’identificazione con esame ultra specialistici compresi i sistemi più innovativi nel campo alla comparazione del Dna si sono mobilitati in tanti. “Vengo da Tarvisio, dal confine orientale, ho contributo con entusiasmo - spiega Mario Arpino, ex Capo si stato maggiore della difesa - A nove anni ho visto i carabineiri ammazzati a picconate dai partigiani. I titini, accompagnati dai comunisti italiani, sono venuti a prendere mio padre che è riuscito a scappare dal retro correndo verso gli inglesi che stavano arrivando”. Il generale ha guidato gli aerei italiani nella prima guerra del Golfo e suo padre non era un criminale  di guerra, ma aveva la “colpa” di essere iscritto la Partito fascista come funzionario amministrativo delle Cave del Predil.
“Norma per mezzo secolo è stata dimenticata e per i marò ci sono voluti quasi 75 anni per riportarli a casa. Per questo la nostra famiglia ha versato un piccolo contributo per identificarli” spiega Loredana Cossetto. Suo padre, Giuseppe, era il cugino della martire istriana, che le ha liberato i polsi legati con il filo di ferro dopo la riesumazione dalla foiba nel 1943.
Alcuni familiari dei marò rintracciati dalla Comunità degli esuli di Lussino hanno partecipato alla raccolta fondi. Tarcisio Arca, nipote di Fabio Venturi, spiega che “mia madre Lucia ha sempre pensato che il fratello fosse disperso. Non avevano neppure idea dove l’avessero ucciso”. L’ultimo segnale di vita sono delle lettere e cartoline da Venezia, nel 1944, con il giovanissimo marinaio sorridente davanti alla basilica di San Marco, in attesa di partire per il fronte. “Fabio più che fascista si sentiva italiano. Nelle lettere non parlava mai della guerra e mandava sempre “un saluto alla piccola Lucia”, mia madre - racconta il nipote - Adesso ha ottant’anni, ma è pronta a collaborare per l’identificazione. Sarebbe bellissimo portare lo zio da noi a Terni”.
L’Associazione nazionale arditi incursori con sede a La Spezia raggruppa i veterani dei Comsubin, i corpi speciali della Marina. Il presidente, contrammiraglio nella riserva, Marco Cuciz,  spiega “che abbiamo fatto un versamento come Associazione e inviato i dati per la raccolta fondi a tutti gli iscritti. Per noi erano marinai italiani schierati, dimenticati e alla fine massacrati”.
Un’altra associazione d’arma, dei Volontari di guerra, originaria fin dai tempi dei garibaldini ha pure partecipato all’iniziativa.
La Verità digitale ha finanziato il progetto, ma sono tante le persone comuni e gli esuli nella lista delle donazioni. Il giornalista Massimiliano Mazzanti ha mobilitato “gli amici di Bologna, in ricordo della splendida serata del 1996, quando, con il patrocinio del Comune, allora sindaco Walter Vitali del Pd, nell\'aula più prestigiosa della città si ripercorse la gloriosa storia della X Mas, con gli interventi del comandante Sergio Nesi, bolognese e di Giano Accame (intellettuale “scomodo” di destra nda), Ugo Franzolin (corrispondente di guerra della X Mas nda) e Aldo Giorleo (veterano della Folgore e giornalista nda)”. Fra i sostenitori qualcuno ha “adottato”, uno dei fuciliati, come Arrigo Veronesi “per l’identificazione del Marò Giuseppe Ricotta” oppure Nino Cozzi “per l’identificazione del Marò Iginio Sersanti”.
All’idea lanciata da Panorama.it ha dato la sua adesione il deputato di Fratelli d’Italia, Salvatore Deidda, capogruppo in Commissione Difesa. “Insieme alla Comunità Caravella di Cagliari ho deciso di aderire e promuovere l’iniziativa - dichiara il parlamentare - Il 2021 è il centenario del Milite Ignoto e in questo caso sarebbe un segnale importantissimo dare un nome e un cognome ai nostri militari e a tutti gli italiani, ma anche sloveni e croati massacrati dal regime comunista di Tito e permettere ai familiari di avere una tomba dove deporre un fiore per piangere i loro cari riemersi dall’oblio ideologico del passato, giusta o sbagliata che fosse la loro scelta”.
Per il “cold case” di Ossero si è messo a disposizione Paolo Fattorini, esperto di identificazione genetica dell’Università di Trieste, con le tecniche innovative chiamate “next generation”. E ha offerto gratuitamente il suo aiuto Francesco Introna, cattedratico di Medicina Legale a Bari ed esperto in antropologia forense, che coordinerà la ricerca scientifica.
Da Torino è disponibile Emilio Nuzzolese, responsabile del laboratorio di identificazione personale dell\'Università di Torino, “persuaso che  - oltre le valenze tecniche sul Dna - potrebbe essere possibile con l\'odontologia forense pervenire a maggiori informazioni circa il profilo biologico dei resti umani da identificare, indipendentemente dalla presenza/assenza di schede dentali”.
I 18.210 euro raccolti in un mese con 169 versamenti di 219 singoli e associazioni dimostra che il “sangue dei vinti”, prigionieri di guerra che si sono arresi, riemerge dalla storia come un fiume carsico. In tempi di pandemia e Caporetto economica il successo della raccolta fondi  per dare un nome e un cognome ai resti dei marò di Ossero dipende dal fatto che per oltre 70 anni la loro sorte è rimasta un tabù.

Raccolta fondi: “Per l’identifcazione dei marò di Ossero”
Comunità di Lussinpiccolo - Trieste Fondo Ossero IT45P0103002230000003586982 Monte dei Paschi di Siena

[continua]

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26 agosto 2023 | Tgcom24 | reportage
Emergenza migranti
Idee chiare sulla crisi dagli sbarchi alla rotta balcanica.

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14 maggio 2020 | Tg5 | reportage
Trieste, Lampedusa del Nord Est
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il gruppetto è seduto sul bordo della strada asfaltata. Tutti maschi dai vent’anni in su, laceri, sporchi e inzuppati di pioggia sembrano sfiniti, ma chiedono subito “dov’è Trieste?”. Un chilometro più indietro passa il confine con la Slovenia. I migranti illegali sono appena arrivati, dopo giorni di marcia lungo la rotta balcanica. Non sembra il Carso triestino, ma la Bosnia nord occidentale da dove partono per arrivare a piedi in Italia. Scarpe di ginnastica, tute e qualche piumino non hanno neanche uno zainetto. Il più giovane è il capetto della decina di afghani, che abbiamo intercettato prima della polizia. Uno indossa una divisa mimetica probabilmente bosniaca, un altro ha un barbone e sguardo da talebano e la principale preoccupazione è “di non venire deportati” ovvero rimandati indietro. Non sanno che la Slovenia, causa virus, ha sospeso i respingimenti dall’Italia. Di nuovo in marcia i migranti tirano un sospiro di sollievo quando vedono un cartello stradale che indica Trieste. Il capetto alza la mano in segno di vittoria urlando da dove viene: “Afghanistan, Baghlan”, una provincia a nord di Kabul. Il 12 maggio sono arrivati in 160 in poche ore, in gran parte afghani e pachistani, il picco giornaliero dall’inizio dell’anno. La riapertura della rotta balcanica sul fronte del Nord Est è iniziata a fine aprile, in vista della fase 2 dell’emergenza virus. A Trieste sono stati rintracciati una media di 40 migranti al giorno. In Bosnia sarebbero in 7500 pronti a partire verso l’Italia. Il gruppetto di afghani viene preso in carico dai militari del reggimento Piemonte Cavalleria schierato sul confine con un centinaio di uomini per l’emergenza virus. Più avanti sullo stradone di ingresso in città, da dove si vede il capoluogo giuliano, la polizia sta intercettando altri migranti. Le volanti con il lampeggiante acceso “scortano” la colonna che si sta ingrossando con decine di giovani stanchi e affamati. Grazie ad un altoparlante viene spiegato in inglese di stare calmi e dirigersi verso il punto di raccolta sul ciglio della strada in attesa degli autobus per portarli via. Gli agenti con le mascherine controllano per prima cosa con i termometri a distanza la temperatura dei clandestini. Poi li perquisiscono uno ad uno e alla fine distribuiscono le mascherine ai migranti. Alla fine li fanno salire sugli autobus dell’azienda comunale dei trasporti cercando di non riempirli troppo per evitare focolai di contagio. “No virus, no virus” sostiene Rahibullah Sadiqi alzando i pollici verso l’alto in segno di vittoria. L’afghano è partito un anno fa dal suo paese e ha camminato per “dodici giorni dalla Bosnia, attraverso la Croazia e la Slovenia fino all’Italia”. Seduto per terra si è levato le scarpe e mostra i piedi doloranti. “I croati mi hanno rimandato indietro nove volte, ma adesso non c’era polizia e siamo passati tutti” spiega sorridendo dopo aver concluso “il gioco”, come i clandestini chiamano l’ultimo tratto della rotta balcanica. “Abbiamo registrato un crollo degli arrivi in marzo e per gran parte di aprile. Poi un’impennata alla fine dello scorso mese fino a metà maggio. L’impressione è che per i paesi della rotta balcanica nello stesso periodo sia avvenuta la fine del lockdown migratorio. In pratica hanno aperto i rubinetti per scaricare il peso dei flussi sull’Italia e sul Friuli-Venezia Giulia in particolare creando una situazione ingestibile anche dal punto di vista sanitario. E’ inaccettabile” spiega l'assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, che punta il dito contro la Slovenia. Lorenzo Tamaro, responsabile provinciale del Sindacato autonomo di polizia, denuncia “la carenza d’organico davanti all’emergenza dell’arrivo in massa di immigrati clandestini. Rinnoviamo l’appello per l’invio di uomini in rinforzo alla Polizia di frontiera”. In aprile circa il 30% dei migranti che stazionavano in Serbia è entrato in Bosnia grazie alla crisi pandemica, che ha distolto uomini ed energie dal controllo dei confini. Nella Bosnia occidentale non ci sono più i campi di raccolta, ma i migranti bivaccano nei boschi e passano più facilmente in Croazia dove la polizia ha dovuto gestire l’emergenza virus e pure un terremoto. Sul Carso anche l’esercito impegnato nell’operazione Strade sicure fa il possibile per tamponare l’arrivo dei migranti intercettai pure con i droni. A Fernetti sul valico con la Slovenia hanno montato un grosso tendone mimetico dove vengono portati i nuovi arrivati per i controlli sanitari. Il personale del 118 entra con le protezioni anti virus proprio per controllare che nessuno mostri i sintomi, come febbre e tosse, di un possibile contagio. Il Sap è preoccupato per l’emergenza sanitaria: “Non abbiamo strutture idonee ad accogliere un numero così elevato di persone. Servono più ambienti per poter isolare “casi sospetti” e non mettere a rischio contagio gli operatori di Polizia. Non siamo nemmeno adeguatamente muniti di mezzi per il trasporto dei migranti con le separazioni previste dall’emergenza virus”. Gli agenti impegnati sul terreno non sono autorizzati a parlare, ma a denti stretti ammettono: “Se va avanti così, in vista della bella stagione, la rotta balcanica rischia di esplodere. Saremo travolti dai migranti”. E Trieste potrebbe trasformarsi nella Lampedusa del Nord Est.

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16 febbraio 2007 | Otto e Mezzo | reportage
Foibe, conflitto sulla storia
Foibe, conflitto sulla storia

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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06 settembre 2018 | Radio immaginaria | intervento
Italia
Teen Parade
Gli adolescenti mi intervistano sulla passione per i reportage di guerra

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24 maggio 2010 | Radio Padania Libera | intervento
Italia
Proselitismo islamico dietro le sbarre
“Penso che sia giusto se alcuni musulmani combattono la guerra santa contro gli americani in paesi che non sono la loro terra”. Dopo un lungo girarci attorno Kamel Adid sorprende un po’ tutti, quando sputa il rospo. La domanda riguardava i mujaheddin, i musulmani pronti a morire per Allah, contro l’invasore infedele. Tre soldati della guerra santa, arrivati un paio di mesi fa da Guantanamo, sono rinchiusi poco più in là, nel reparto di massima sicurezza del carcere di Opera, alle porte di Milano.
Adid è un giovane marocchino di 31 anni con barbetta islamica d’ordinanza e tunica color noce. Nel carcere modello di Opera fa l’imam dei 44 musulmani detenuti, che frequentano una grande sala adibita a moschea. Un predicatore fai da te, che di solito parla un linguaggio moderato e ti guarda con occhioni apparentemente timidi.
Deve scontare ancora due mesi di pena per un reato legato alla droga e da pochi giorni è stato trasferito in un altro istituto. “Quelli che si fanno saltare in aria subiscono il lavaggio del cervello – si affretta a spiegare l’autonominato imam – Noi abbiamo riscoperto la fede in carcere. Pregare ci da conforto, ci aiuta ad avere speranza”.

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03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
Italia
Professione Reporter di Guerra


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03 gennaio 2011 | Radio Capodistria - Storie di bipedi | intervento
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Gli occhi della guerra
Le orbite rossastre di un bambino soldato, lo sguardo terrorizzato di un prigioniero che attende il plotone di esecuzione, l’ultimo rigagnolo di vita nelle pupille di un ferito sono gli occhi della guerra incrociati in tanti reportage di prima linea. Dopo l’esposizione in una dozzina di città la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” è stata inaugurata a Trieste. Una collezione di immagini forti scattate in 25 anni di reportage da Fausto Biloslavo, Gian Micalessin e Almerigo Grilz, ucciso il 19 maggio 1987 in Mozambico, mentre filmava uno scontro a fuoco. La mostra, che rimarrà aperta al pubblico fino al 20 gennaio, è organizzata dall’associazione Hobbit e finanziata dalla regione Friuli-Venezia Giulia. L’esposizione è dedicata a Grilz e a tutti i giornalisti caduti in prima linea. Il prossimo marzo verrà ospitata a Bruxelles presso il parlamento europeo.Della storia dell'Albatross press agency,della mostra e del libro fotografico Gli occhi della guerra ne parlo a Radio Capodistria con Andro Merkù.

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