image
Reportage
07 febbraio 2024 - Esteri - Croazia - Panorama
Oltre ai nostri marò, sulle isole croate ci sono altri caduti dimenticati
OSSERO (Croazia) - “Papà era podestà e mia sorella gli dava una mano in Comune. I partigiani avevano occupato la nostra casa ad Ossero. Ero una bambina, ma ricordo che mio padre raccontava dei soldati italiani prigionieri ammazzati dietro il muro del cimitero”. Ernesta Berna, 85 anni, è la più anziana del piccolo centro sull’isola croata di Cherso. Ultima testimone degli orrori sui vinti, che hanno segnato la fine della seconda guerra mondiale. Da queste parti, oggi rinomate località turistiche, Panorama ha scoperto che sono stati compiuti altri terribili eccidi di partigiani anticomunisti e soldati tedeschi fatti a pezzi dopo la resa.
I ricordi di Ernesta, dei racconti di suo padre, riguardano 27 militari italiani, che il 21 aprile 1945, nella vicina Neresine, si sono arresi ai partigiani di Tito. Ventuno marò della X Mas, compresi giovanissimi, e sei militi locali del battaglione Tramontana, che combattevano dalla parte sbagliata per difendere un ultimo lembo d’Italia. Nonostante le promesse di aver salva la vita sono stati tutti passati per le armi e gettati in una fossa comune ad Ossero. Un crimine a guerra praticamente finita, che doveva rimanere sepolto per sempre, ma grazie alle testimonianze raccolte sul posto dal capitano Federico Scopinich è tornato alla luce. Nel 2019  il ministero della Difesa italiano, in collaborazione con le autorità croate, riesumavano le spoglie dei trucidati portandoli al Sacrario militare di Bari come “caduti ignoti”. L’anno dopo Licia Giadrossi, presidente degli esuli della Comunità di Lussinpiccolo ha proposto a Panorama di lanciare una raccolta fondi sul sito per identificare i marò grazie all’esame del Dna dei familiari. In centinaia hanno donato con slancio compreso il generale Mario Arpino, ex Capo di stato maggiore della difesa, l’Associazione degli incursori di Marina, ma anche i parenti di Norma Cossetto, la martire istriana violentata e infoibata dai partigiani di Tito. I 26.293 euro raccolti hanno permesso di lanciare il progetto coinvolgendo le università di Bari e Trieste. Un cold case della storia, che alla fine ha portato “attraverso complessi esami sulle ossa dei marò ignoti a far combaciare il Dna dei parenti con 10 scheletri. Un successo insperato: su 19 consanguinei di 14 marò (8 per via paterna e 2 madri) oltre la metà sono stati identificati” spiega Barbara Di Stefano del Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e della Salute dell’università di Trieste. Il progetto sta andando avanti per ottenere dati genetici da sei scheletri, che per ora non hanno dato alcun risultato e confermare ulteriormente le identificazioni.
Alla notizia che le spoglie di una decina di marò, dopo quasi 80 anni, non saranno più ignote, Ernesta, “da sempre italiana” si commuove: “Torneranno finalmente a casa dai loro cari”. Panorama ha ripercorso il calvario dei soldati italiani, che da Neresine ad Ossero, probabilmente scalzi e semi nudi, sono stati vessati in ogni modo lungo il tragitto di 5 chilometri.
La colonna della morte dei marò si è fermata davanti al muro del cimitero del piccolo centro. Oggi una targa voluta dagli esuli ricorda: “In questo luogo, nelle prime ore del 22 aprile 1945 vennero stroncate ventotto (un militare in più che probabilmente si è suicidato alla cattura nda) giovani vite italiane vittime della barbarie della guerra. Possano ora riposare in pace”.
A concedere di riportare su una seconda targa la lista dei nomi era stato, nel 2012, il vescovo croato di Veglia, Valter Župan. Oggi si è ritirato dalle suore a Neresine. “Per noi l’immediato dopoguerra è stato il periodo peggiore - spiega il vescovo emerito - Questi morti (i marò nda) erano un tabù, ma sono stati uccisi anche tanti sloveni e croati, soprattutto se appartenevano all’intellighenzia. I comunisti non ammettevano oppositori”.
Seminarista a Zara nel 1949 ha dovuto comunque fare il servizio militare nell’esercito jugoslavo per due anni. “Parlare delle foibe era pericolosissimo - ricorda il prelato - La gente spariva nel nulla fino ai primi anni cinquanta”.
Piu a sud lungo l’isola, incastonata come una picca perla in un’insenatura, sorge Lussinpiccolo, che d’estate si riempie di turisti. Davanti alla bella sede della Comunità degli italiani, 496 iscritti che non sono pochi dopo l’esodo di massa del dopoguerra, sventola la bandiera europea, il Tricolore, lo stendardo croato e della città. Sanjin Zoreti?, presidente da un anno e mezzo, ci accoglie senza peli sula lingua: “L’esodo degli italiani è stato il crimine più grande provocato dalla paura, dal terrore dei massacri compiuti alla fine della guerra dai titini”. E passeggiando sul molo vengono a galla “tanti crimini di guerra. La nonna mi raccontava che a Lussingrande sono stati uccisi i partigiani cetnici e il mare era rosso di sangue”.  Per i miliziani di Tito i cetnici monarchici e anticomunisti erano nemici come tedeschi e italiani. “Quando sono stati fatti prigionieri - racconta il presidente - avevano tutti le mani legate dietro la schiena. Uno li teneva e un altro li scorticava vivi”.  Zoreti?, racconta anche di un altro massacro dimenticato: “Il caso dei marò di Ossero non è l’unico. I tedeschi vicino all’aeroporto di Lussinpiccolo erano stati convinti ad arrendersi. Il mio bisnonno che parlava la lingua era andato a fare da interprete” con i partigiani jugoslavi. Come nel caso dei 27 italiani anche i soldati tedeschi, che non facevano parte di unità SS, pensavano di venire trattati secondo la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. “Li hanno fatti a pezzi - racconta - I titini avevano le braccia sporche di sangue fin sopra il gomito. I resti dei tedeschi sono ancora sepolti nel  bosco”.  
Per Zoreti? “non c’è alcuna divisione fra esuli e rimasti. Siamo tutti italiani e ancora più uniti adesso con l’Europa senza confini”. Sui marò trucidati ad Ossero non ha dubbi: “Sono stati giustiziati senza un processo. Si erano arresi e poi li hanno uccisi. E’ un crimine di guerra”.
Gli studi sul cold case delle università di Bari e Trieste hanno scoperto che gli aguzzini “hanno usato una mazza ferrata per fracassare la testa ai marò”. E almeno la metà ha un colpo d’arma da fuoco alla nuca. Una volta gettati i prigionieri senza vita nella fossa “si ipotizza che successivamente dei mezzi pesanti abbiano schiacciato i corpi allo scopo di occultarli”.
Il presidente ribadisce che “fino agli anni novanta noi giovani non sapevamo dell’esodo e delle foibe, ma adesso i crimini vengono sempre più alla luce. Non bisogna dimenticarli specialmente il 10 febbraio, giorno del Ricordo di queste tragedie”.
Fausto Biloslavo
[continua]