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Commento
17 giugno 2024 - Interni - Italia - Il Giornale
“Le forze armate vanno tutelate e un politico dovrebbe congedarsi”
l generale Vannacci, da buon incursore, sa che la miglior difesa è l’attacco, ma esagera nella risposta al mio invito pubblicato dal Giornale, sull’abbandonare la divisa adesso che ha scelto la nuova battaglia al Parlamento europeo con mezzo milione di voti.
Non era un proiettile, ma un appello che al generale avevo già espresso fin dalla prima intervista proprio sul Giornale, dopo l’uscita del Mondo al contrario, per dare spazio alla sua voce, quando tutti facevano a gara per impallinarlo con un plotone di esecuzione politico-mediatico. E non era ancora arrivato lo sdoganamento di Salvini.
Un motivo in più per capire che l’appello ad appendere la divisa al chiodo non fa parte di nessuna operazione Psyop o complotto, ma è solo un’opinione, un invito, da sottoporre al diretto interessato ai lettori e all’opinione pubblica. Una questione che non può rimanere «personale», dopo il caso Vannacci e la sua discesa in campo.
Sinceramente leggere nella replica che l’avrei fatto per «compiacenza, posti in prima fila, reportage embedded con la Task force 45» non mi fa arrabbiare, ma sorridere. Tutti sanno che sono il giornalista meno compiacente e più rompiscatole per il «sistema» Difesa perché voglio sempre andare in prima linea raccontando le nostre missioni senza infingimenti politicamente corretti. La leggenda racconta che quando chiamo gli Stati maggiori, paura e fastidio si mescolano nella domanda «e adesso cosa vuole?». Di solito i miei 40 anni di reportage di guerra sono sufficienti per ottenere udienza alla Difesa. E se non bastano faccio il diavolo a quattro, come è capitato per l’ultimo servizio sul Caio Duilio nel Mar Rosso, un imbarco strappato dopo mesi di braccio di ferro.
Proprio da giuliano me ne sono sempre fregato e non avrei mai accettato il «conformismo bacchettone» o di lisciare il pelo a qualcuno, che se mi avesse chiesto di lanciare l’appello al congedo, pur condividendolo, non lo avrei mai fatto tantomeno in pubblico. A tal punto che ho chiesto dettagli su aspettativa e congedo a un alto ufficiale non più in servizio, che conosce bene Vannacci ed è d’accordo con lui a non mollare la divisa.
Semplicemente sono convinto che le Forze armate vadano sempre tutelate e preservate nella loro terzietà, mai trascinate neanche per sbaglio o in maniera strumentale in beghe di parte. Per questo motivo il generale Vannacci, che adesso è diventato, legittimamente, un politico in servizio permanente effettivo, dovrebbe congedarsi senza sfruttare l’aspettativa come hanno fatto giornalisti qualunque suoi denigratori.
Non è una questione di diritti costituzionali o di calcolo economico (Vannacci è già milionario con la vendita del Mondo al contrario), ma di fare la cosa giusta e opportuna per le Forze armate, secondo la mia modesta opinione. E magari evitare ripicche e il gusto di levarsi sassolini nelle scarpe nei confronti di chi vorrebbe vedere il generale trascinato in catene a Gaeta.
Ancora di più, dopo la pubblicazione dell’invito ad appendere al chiodo la divisa, sono arrivati messaggi di condivisione da parte di alti ufficiali in servizio e no non certo parrucconi o imboscati - ma pure da militari di ogni ordine e grado oltre a gente comune, che in diversi casi hanno votato per Vannacci. E vorrebbero che avesse le mani libere in politica, senza rischiare riflessi sulle Forze armate, pur continuando a chiamarlo «generale» o «comandante». Altri, ma sinceramente una minoranza, non sono d’accordo e vogliono che rimanga con le stellette.
La decisione spetta all’incursore del Mondo al contrario, che rimarrà sempre tale. E proprio il 16 giugno, 106 anni dopo l’assalto degli arditi che sbaragliavano gli austriaci sul Col Moschin, durante la battaglia del Solstizio, dando il nome al glorioso 9° reggimento, da dove viene Vannacci, avrei preferito che il generale rompesse gli schemi «fregandosene» dell’aspettativa, delle giuste recriminazioni, delle ripicche. E annunciasse la decisione di appendere la divisa al chiodo per le stesse Forze armate, che ha servito con coraggio e onore.
[continua]

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23 aprile 2012 | Premio Lago | reportage
Il premio Giorgio Lago: Arte, impresa, giornalismo, volontariato del Nord Est
Motivazione della Giuria: Giornalista di razza. Sempre sulla notizia, esposto in prima persona nei vari teatri di guerra del mondo. Penna sottile, attenta, con un grande amore per la verità raccontata a narrare le diverse vicende dell’uomo.

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11 novembre 2008 | Centenario della Federazione della stampa | reportage
A Trieste una targa per Almerigo Grilz
e tutti i caduti sul fronte dell'informazione

Ci sono voluti 21 anni, epiche battaglie a colpi di articoli, proteste, un libro fotografico ed una mostra, ma alla fine anche la "casta" dei giornalisti triestini ricorda Almerigo Grilz. L'11 novembre, nella sala del Consiglio comunale del capoluogo giuliano, ha preso la parola il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Friuli-Venezia Giulia, Pietro Villotta. Con un appassionato discorso ha spiegato la scelta di affiggere all'ingresso del palazzo della stampa a Trieste una grande targa in cristallo con i nomi di tutti i giornalisti italiani caduti in guerra, per mano della mafia o del terrorismo dal 1945 a oggi. In rigoroso ordine alfabetico c'era anche quello di Almerigo Grilz, che per anni è stato volutamente dimenticato dai giornalisti triestini, che ricordavano solo i colleghi del capoluogo giuliano uccisi a Mostar e a Mogadiscio. La targa è stata scoperta in occasione della celebrazione del centenario della Federazione nazionale della stampa italiana. Il sindacato unico ha aderito all'iniziativa senza dimostrare grande entusiasmo e non menzionando mai, negli interventi ufficiali, il nome di Grilz, ma va bene lo stesso. Vale la pena dire: "Meglio tardi che mai". E da adesso speriamo veramente di aver voltato pagina sul "buco nero" che ha avvolto per anni Almerigo Grilz, l'inviato ignoto.

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04 luglio 2012 | Telefriuli | reportage
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Giornalismo di guerra e altro.

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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24 maggio 2010 | Radio Padania Libera | intervento
Italia
Proselitismo islamico dietro le sbarre
“Penso che sia giusto se alcuni musulmani combattono la guerra santa contro gli americani in paesi che non sono la loro terra”. Dopo un lungo girarci attorno Kamel Adid sorprende un po’ tutti, quando sputa il rospo. La domanda riguardava i mujaheddin, i musulmani pronti a morire per Allah, contro l’invasore infedele. Tre soldati della guerra santa, arrivati un paio di mesi fa da Guantanamo, sono rinchiusi poco più in là, nel reparto di massima sicurezza del carcere di Opera, alle porte di Milano.
Adid è un giovane marocchino di 31 anni con barbetta islamica d’ordinanza e tunica color noce. Nel carcere modello di Opera fa l’imam dei 44 musulmani detenuti, che frequentano una grande sala adibita a moschea. Un predicatore fai da te, che di solito parla un linguaggio moderato e ti guarda con occhioni apparentemente timidi.
Deve scontare ancora due mesi di pena per un reato legato alla droga e da pochi giorni è stato trasferito in un altro istituto. “Quelli che si fanno saltare in aria subiscono il lavaggio del cervello – si affretta a spiegare l’autonominato imam – Noi abbiamo riscoperto la fede in carcere. Pregare ci da conforto, ci aiuta ad avere speranza”.

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25 maggio 2010 | Spazio Radio - Radio 1 | intervento
Italia
L'Islam nelle carceri italiane
In Italia su oltre 23mila detenuti stranieri, 9840 risultano musulmani, secondo i dati ufficiali. Almeno seimila, però, non si sono dichiarati. Il rapporto di 364 pagine, “La radicalizzazione jihadista nelle istituzioni penitenziarie europee”, realizzato dall’esperto di Islam nella carceri, Sergio Bianchi, ne indica 13mila.
In Italia ci sono circa 80 islamici dietro le sbarre per reati connessi al terrorismo. Dal 2009 li hanno concentrati in quattro istituti di pena: ad Asti, Macomer, Benevento e Rossano. Nel carcere di Opera, invece, sono arrivati Adel Ben Mabrouk, Nasri Riadh e Moez Abdel Qader Fezzani, ex prigionieri di Guantanamo. Chi li controlla ogni giorno racconta che parlano in italiano. La guerra santa in Afghanistan l’hanno abbracciata dopo aver vissuto come extracomunicatori nel nostro paese. Non si possono incontrare fra loro e vivono in celle singole. Pregano regolarmente con molta devozione e hanno mantenuto i barboni islamici.

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20 giugno 2017 | WDR | intervento
Italia
Più cittadini italiani con lo ius soli
Estendere la cittadinanza italiana ai bambini figli di stranieri? È la proposta di legge in discussione in Senato in questi giorni. Abbiamo sentito favorevoli e contrari.

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06 settembre 2018 | Radio immaginaria | intervento
Italia
Teen Parade
Gli adolescenti mi intervistano sulla passione per i reportage di guerra

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