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18 giugno 2025 - Interni - Italia - Panorama
Se Hezbollah è nei nostri atenei
“Oggi ho avuto occasione di presentare il libro di Yahya Sinwar, Le Spine e il Garofano presso la facoltà di Lettere della Sapienza a Roma” ha annunciato il 5 maggio, Davide Piccardo, direttore editoriale del giornale islamico on line La Luce. Sinwar è il capo terrorista di Hamas, ucciso dagli israeliani a Gaza, che ha scatenato l’attacco stragista del 7 ottobre. Piccardo lo presenta come un illuminato scrittore: “Il libro di Yahya Sinwar è un testo fondamentale per capire la questione palestinese e la sua resistenza ed è oggi più attuale che mai”. E non a caso ringrazia “il prof Marco Di Branco per il coraggio dimostrato nell’invitarmi e nel dare spazio ad un libro così censurato e demonizzato”. Docente associato alla Sapienza, che non aveva fatto parlare papa Ratzinger, ma presenta un terrorista come un novello Tolstoj.
Non solo Harvard, sotto tiro della Casa Bianca per le derive antisemite, ma pure negli atenei italiani non mancano violenze e prevaricazioni pro Pal. E suona l’allarme pure per l’aumento delle iscrizioni di cinesi e iraniani, i più numerosi fra gli studenti extra comunitari. 
“Il fenomeno dell’"integrazione antagonista" riguarda l'Islam politico che si insinua nelle società occidentali. Non lo fa abbracciando i valori liberaldemocratici, ma sfruttando le fratture interne all'Occidente rappresentate da movimenti postcoloniali, radicali e "woke," arrivando persino all’anarco-islamismo” spiega Ciro Sbailò, ordinario di Diritto alla UNINT, università degli studi internazionali di Roma. “Tale clima di pressione ideologica colpisce anche il mondo accademico. Questo fenomeno, già evidente negli Stati Uniti, sta ora radicandosi in Europa e in Italia” aggiunge il docente che dirige anche il centro Geodi (geopolitica e diritto) dell’università internazionale.
Nel nostro paese, come nelle grandi università americane, si rischiano presenze imbarazzanti. All’università di Genova uno sciita libanese ha iniziato un dottorato di ricerca all’università di Genova e fino al 2024 aveva un contratto di assistente. Attenzionato dall’Aisi, l’intelligence interna, sarebbe uno dei figli figli di Hussein Ahmad Karaki, indicato dai servizi argentini come “il capo delle operazioni militari di Hezbollah per l’America latina”. E accusato dagli israeliani degli attentati contro l'ambasciata e al centro culturale ebraico di Buenos Aires nei primi anni novanta.
Le eventuali colpe dei padri non devono ricadere sui figli, ma il dottorando di Genova, che ha ancora la residenza nel capoluogo ligure, dal 2019 al 2021, avrebbe svolto attività di ricerca presso l'Istituto Idrografico della Marina militare e l’Istituto di Ingegneria Marina del Centro nazionale ricerche. E sviluppato una nuova metodologia scientifica per realizzare ricerche idrografiche tramite sistemi multisensori montati su droni. Non è un caso che sia abilitato al pilotaggio di droni commerciali. E avrebbe intestato a suo nome un conto corrente presso l'istituto bancario "Qard Al-Hassan", notoriamente legato ad Hezbollah. Sui social ha elogiato alcuni “martiri” di Hezbollah ritratti in mimetica e con il fucile in pugno. Non è stato un problema per continuare gli studi a Genova diventando pure assistente. 
Da Harvard a Torino il passo è breve per le prevaricazioni pro Pal. In maggio durante il salone del libro, pure contestato, si verifica l’episodio più grave al campus Einaudi dell’università di Torino. L’Unione giovani ebrei d’Italia, gli Studenti per Israele, quelli Liberali e per le Libertà cercano da mesi di organizzare un convegno “contro la violenza e l’antisemitismo nelle università”. La direttrice del campus, Anna Mastromarino, boccia subito questa frase contenuta nelle prime locandine. E cancella un primo evento all’ultimo minuto. Il gruppo studentesco del “Manifesto vogliamo studiare” torna alla carica e ottiene l’autorizzazione per il 15 maggio. “Arriviamo mezz’ora prima per sistemarci e troviamo l’aula già occupata da un centinaio di scatenati con bandiere della Palestina, megafoni, carrelli della spesa pieni di oggetti da tirarci addosso e due docenti intenti a tenere un convegno sulla Nakba (l’esodo forzato dei palestinesi nel 1948 nda) e il presunto genocidio (a Gaza nda)” racconta Cristina Franco, una delle organizzatrici. Alle 16, quando doveva iniziare il convegno, “la situazione peggiora e aumentano il numero dei manifestanti, il lancio di oggetti, le urla, gli insulti, gli spintoni. Noi sempre chiusi in un angolo senza possibilità di profferire parola”. La direttrice ha chiesto alla polizia di tenersi a distanza e assegna l’aula magna agli studenti del "Manifesto vogliamo studiare". “Ancora peggio: saranno stati 300 e noi 20 - spiega Franco - Raddoppiano sputi, calci, insulti, sberle persino ad un anziano nostro accompagnatore”. I pro Pal li sbattono fuori, dove continuano le aggressioni fino a quando intervengono le forze dell’ordine, ma l’evento è oramai saltato. “Mi sono presa, più volte, in testa l'asta della bandiera della Palestina, insulti e calci - denuncia Franco - E sicuramente c'è stata saldatura con gruppi di estrema sinistra. Fra i capi manifestazione c'erano rappresentanti di Cambiare Rotta, molti di età non universitaria, Potere al popolo, collettivi e Giovani palestinesi. Studenti? Pochi”. I facinorosi hanno dichiarato che “possono e devono usare la violenza contro chi ritengono, a loro insindacabile giudizio, “fascista, sionista e complice del genocidio”.
Il 4 giugno la vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno del Pd, lancia l’allarme: “Oggi riuniamo giovani voci ebraiche provenienti da tutta Europa (…) per parlare di qualcosa che ci preoccupa profondamente: l’aumento dell’antisemitismo nelle nostre università”. L’iniziativa fa parte del lavoro di un’apposita task force di Strasburgo. “Molti studenti ebrei si sentono isolati e spaventati all’università - sottolinea l’esponente dem - un luogo che dovrebbe essere aperto, inclusivo e sicuro per tutti”.
Dallo scorso anno sono stati denunciati non pochi episodi di intolleranza: All’università di Perugia uno studente libanese ha preso di mira un’israeliana incitando tutti a non sedersi accanto perché ebrea. A Milano hanno sputato addosso ad un universitario colpevole di portare al collo la stella di Davide. In Umbria un’altra studentessa israeliana è stata minacciata, assieme alla famiglia, e insultata come “terrorista”. Altri studenti ebrei non portano più la kippa, il copricapo religioso, per timore di venire aggrediti nelle università. La politologa Sofia Ventura, che insegna all’ateneo di Bologna, ha osservato che “le università oggi sono in qualche modo dominate da un pensiero unico sul tema del conflitto israelo-palestinese”. 
Per non parlare delle minacce “pacifiste”. Sbailò, dell’Unint di Roma, rivela che “gruppi di sedicenti pacifisti hanno chiesto le mie dimissioni dal Comitato scientifico della Fondazione Med-Or. L'accusa era di contribuire alla "militarizzazione del sapere" a causa dei legami con il Gruppo Leonardo. “Pressioni simili e peggiori sono state esercitate - aggiunge - anche in pubblico, su altri colleghi accademici”.
Un’altra insidia, evidenziata da Trump negli Usa, riguarda gli studenti stranieri. “Le università possono essere infiltrate, anche attraverso finanziamenti più o meno mediati” aveva dichiarato il prefetto Mario Parente, riferendosi alla Cina, prima di lasciare la guida dell’Aisi, l’intelligence interna. 
Negli ultimi cinque anni gli immatricolati stranieri nei nostri atenei sono stati 80.881 (oltre 25mila solo nel 2024/2025). L’ultimo anno le matricole più numerose, provenienti da paesi extra Ue, sono i 1753 studenti cinesi. Gli iraniani risultano 1246, superati solo da marocchini, tunisini e turchi. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, con delega sui servizi segreti ha presentato il “Piano d’azione nazionale per tutelare l’università e la ricerca italiane dalle ingerenze straniere”. Il ministero dell’Istruzione ha stilato 11 pagine di linee guida per gli atenei contro le “interferenze esterne indebite”. Nell’introduzione la minaccia è chiara: “Per un Paese come l’Italia occorre essere consapevoli che attività di soggetti stranieri (…) nell’ambito della competizione globale e delle tensioni internazionali, possono comportare crescenti criticità per l’integrità e la sicurezza di tale sistema e, in certi casi, alla sicurezza nazionale”.
Fausto Biloslavo
[continua]

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31 ottobre 2021 | Quarta repubblica | reportage
No vax scontri al porto
I primi lacrimogeni rimbalzano sull'asfalto e arditi No Pass cercano di ributtarli verso il cordone dei carabinieri che sta avanzando per sgomberare il varco numero 4 del porto di Trieste. I manifestanti urlano di tutto «merde, vergogna» cercando pietre e bottiglie da lanciare contro le forze dell'ordine. Un attivista ingaggia lo scontro impossibile e viene travolto dalle manganellate. Una volta crollato a terra lo trascinano via oltre il loro cordone. Scene da battaglia urbana, il capoluogo giuliano non le vedeva da decenni. Portuali e No Pass presidiavano da venerdì l'ingresso più importante dello scalo per protestare contro l'introduzione obbligatoria del lasciapassare verde. In realtà i portuali, dopo varie spaccature, sono solo una trentina. Gli altri, che arriveranno fino a 1.500, sono antagonisti e anarchici, che vogliono la linea dura, molta gente venuta da fuori, più estremisti di destra. Alle 9 arrivano in massa le forze dell'ordine con camion-idranti e schiere di agenti in tenuta antisommossa. Una colonna blu che arriva da dentro il porto fino alla sbarra dell'ingresso. «Lo scalo è porto franco. Non potevano farlo. È una violazione del trattato pace (dello scorso secolo, nda)» tuona Stefano Puzzer detto Ciccio, il capopopolo dei portuali. Armati di pettorina gialla sono loro che si schierano in prima linea seduti a terra davanti ai cordoni di polizia. La resistenza è passiva e gli agenti usano gli idranti per cercare di far sloggiare la fila di portuali. Uno di loro viene preso in pieno da un getto d'acqua e cade a terra battendo la testa. Gli altri lo portano via a braccia. Un gruppo probabilmente buddista prega per evitare lo sgombero. Una signora si avvicina a mani giunte ai poliziotti implorando di retrocedere, ma altri sono più aggressivi e partono valanghe di insulti. Gli agenti avanzano al passo, metro dopo metro. I portuali fanno da cuscinetto per tentare di evitare incidenti più gravi convincendo la massa dei No Pass, che nulla hanno a che fare con lo scalo giuliano, di indietreggiare con calma. Una donna alza le mani cercando di fermare i poliziotti, altri fanno muro e la tensione sale alimentata dal getto degli idranti. «Guardateci siamo fascisti?» urla un militante ai poliziotti. Il nocciolo duro dell'estrema sinistra seguito da gran parte della piazza non vuole andarsene dal porto. Quando la trattativa con il capo della Digos fallisce la situazione degenera in scontro aperto. Diego, un cuoco No Pass, denuncia: «Hanno preso un mio amico, Vittorio, per i capelli, assestandogli una manganellata in faccia». Le forze dell'ordine sgomberano il valico, ma sul grande viale a ridosso scoppia la guerriglia. «Era gente pacifica che non ha alzato un dito - sbotta Puzzer - È un attacco squadrista». I più giovani sono scatenati e spostano i cassonetti dell'immondizia per bloccare la strada scatenando altre cariche degli agenti. Donne per nulla intimorite urlano «vergognatevi» ai carabinieri, che rimangono impassibili. In rete cominciano a venire pubblicati post terribili rivolti agli agenti: «Avete i giorni contati. Se sai dove vivono questi poliziotti vai a ucciderli».Non a caso interviene anche il presidente Sergio Mattarella: «Sorprende e addolora che proprio adesso, in cui vediamo una ripresa incoraggiante esplodano fenomeni di aggressiva contestazione». Uno dei portuali ammette: "Avevamo detto ai No Pass di indietreggiare quando le forze dell'ordine avanzavano ma non ci hanno ascoltati. Così la manifestazione pacifica è stata rovinata». Puzzer raduna le «truppe» e i rinforzi, 3mila persone, in piazza Unità d'Italia. E prende le distanze dagli oltranzisti: «Ci sono gruppi che non c'entrano con noi al porto che si stanno scontrando con le forze dell'ordine». Non è finita, oltre 100 irriducibili si scatenano nel quartiere di San Vito. E riescono a bloccare decine di camion diretti allo scalo con cassonetti dati alle fiamme in mezzo alla strada. Molti sono vestiti di nero con il volto coperto simili ai black bloc. La battaglia sul fronte del porto continua fino a sera.

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30 aprile 2020 | Tg5 | reportage
L'anticamera dell'inferno
Fausto Biloslavo TRIESTE - “Per noi in prima linea c’è il timore che il ritorno alla vita normale auspicata da tutti possa portare a un aumento di contagi e dei ricoveri di persone in condizioni critiche” ammette Gianfranco, veterano degli infermieri bardato come un marziano per proteggersi dal virus. Dopo anni in pronto soccorso e terapia intensiva lavorava come ricercatore universitario, ma si è offerto volontario per combattere la pandemia. Lunedì si riapre, ma non dimentichiamo che registriamo ancora oltre 250 morti al giorno e quasi duemila nuovi positivi. I guariti aumentano e il contagio diminuisce, però 17.569 pazienti erano ricoverati con sintomi fino al primo maggio e 1578 in rianimazione. Per entrare nel reparto di pneumologia semi intensiva respiratoria dell’ospedale di Cattinara a Trieste bisogna seguire una minuziosa procedura di vestizione. Mascherina di massima protezione, tuta bianca, copri scarpe, doppi guanti e visiera per evitare il contagio. Andrea Valenti, responsabile infermieristico, è la guida nel reparto dove si continua a combattere, giorno e notte, per strappare i contagiati alla morte. Un grande open space con i pazienti più gravi collegati a scafandri o maschere che li aiutano a respirare e un nugolo di tute bianche che si spostano da un letto all’altro per monitorare o somministrare le terapie e dare conforto. Un contagiato con i capelli grigi tagliati a spazzola sembra quasi addormentato sotto il casco da marziano che pompa ossigeno. Davanti alla finestra sigillata un altro paziente che non riesce a parlare gesticola per indicare agli infermieri dove sente una fitta di dolore. Un signore cosciente, ma sfinito, con i tubi dell’ossigeno nel naso è collegato, come gli altri, a un monitor che segnala di continuo i parametri vitali. “Mi ha colpito un paziente che descriveva la sensazione terribile, più brutta del dolore, di non riuscire a respirare. Diceva che “è come se mi venisse incontro la morte”” racconta Marco Confalonieri direttore della struttura complessa di pneumologia e terapia intensiva respiratoria al dodicesimo piano della torre medica di Cattinara. La ventilazione non invasiva lascia cosciente il paziente che a Confalonieri ha raccontato come “bisogna diventare amico con la macchina, mettersi d’accordo con il ventilatore per uscire dal tunnel” e tornare alla vita. Una “resuscitata” è Vasilica, 67 anni, operatrice di origine romena di una casa di risposo di Trieste dove ha contratto il virus. “Ho passato un inferno collegata a questi tubi, sotto il casco, ma la voglia di vivere e di rivedere i miei nipoti, compreso l’ultimo che sta per nascere, ti fa sopportare tutto” spiega la donna occhialuta con una coperta sulle spalle, mascherina e tubo per l’ossigeno. La sopravvissuta ancora ansima quando parla del personale: “Sono angeli. Senza questi infermieri, medici, operatori sanitari sarei morta. Lottano ogni momento al nostro fianco”. Il rumore di fondo del reparto è il ronzio continuo delle macchine per l’ossigeno. L’ambiente è a pressione negativa per aspirare il virus e diminuire il pericolo, ma la ventilazione ai pazienti aumenta la dispersione di particelle infette. In 6 fra infermieri ed un medico sono stati contagiati. “Mi ha colpito la telefonata di Alessandra che piangendo ripeteva “non è colpa mia, non è colpa mia” - racconta Confalonieri con il volto coperto da occhialoni e maschera di protezione - Non aveva nessuna colpa, neppure sapeva come si è contagiata, ma si struggeva per dover lasciare soli i colleghi a fronteggiare il virus”. Nicol Vusio, operatrice sanitaria triestina di 29 anni, ha spiegato a suo figlio che “la mamma è in “guerra” per combattere un nemico invisibile e bisogna vincere”. Da dietro la visiera ammette: “Me l’aspettavo fin dalla prime notizie dalla Cina. Secondo me avremmo dovuto reagire molto prima”. Nicol racconta come bagna le labbra dei pazienti “che con gli occhi ti ringraziano”. I contagiati più gravi non riescono a parlare, ma gli operatori trovano il modo di comunicare. “Uno sguardo, la rotazione del capo, il movimento di una mano ti fa capire se il paziente vuole essere sollevato oppure girato su un fianco o se respira male” spiega Gianfranco, infermiere da 30 anni. Il direttore sottolinea che “il covid “cuoce” tutti gli organi, non solo il polmone e li fa collassare”, ma il reparto applica un protocollo basato sul cortisone che ha salvato una novantina di contagiati. Annamaria è una delle sopravvissute, ancora debole. Finalmente mangia da sola un piattino di pasta in bianco e con un mezzo sorriso annuncia la vittoria: “Il 7 maggio compio 79 anni”.

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12 maggio 2020 | Tg5 | reportage
L'infermiera sopravvissuta al virus
L’infermiera ha contratto il virus da un paziente anziano nell’ospedale Maggiore di Trieste A casa non riusciva più a respirare ed è stata trasportata d’urgenza in ospedale Il figlio, soldato della Nato, era rimasto bloccato sul fronte baltico dall’emergenza virus con l’appartamento pieno di medicine l’incubo del contagio non l’abbandonerà mai Due mesi dopo il contagio Svetlana è negativa al virus ma ancora debole e chiusa in casa

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03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
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Professione Reporter di Guerra


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06 settembre 2018 | Radio immaginaria | intervento
Italia
Teen Parade
Gli adolescenti mi intervistano sulla passione per i reportage di guerra

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25 maggio 2010 | Spazio Radio - Radio 1 | intervento
Italia
L'Islam nelle carceri italiane
In Italia su oltre 23mila detenuti stranieri, 9840 risultano musulmani, secondo i dati ufficiali. Almeno seimila, però, non si sono dichiarati. Il rapporto di 364 pagine, “La radicalizzazione jihadista nelle istituzioni penitenziarie europee”, realizzato dall’esperto di Islam nella carceri, Sergio Bianchi, ne indica 13mila.
In Italia ci sono circa 80 islamici dietro le sbarre per reati connessi al terrorismo. Dal 2009 li hanno concentrati in quattro istituti di pena: ad Asti, Macomer, Benevento e Rossano. Nel carcere di Opera, invece, sono arrivati Adel Ben Mabrouk, Nasri Riadh e Moez Abdel Qader Fezzani, ex prigionieri di Guantanamo. Chi li controlla ogni giorno racconta che parlano in italiano. La guerra santa in Afghanistan l’hanno abbracciata dopo aver vissuto come extracomunicatori nel nostro paese. Non si possono incontrare fra loro e vivono in celle singole. Pregano regolarmente con molta devozione e hanno mantenuto i barboni islamici.

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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15 marzo 2018 | Radio Radicale | intervento
Italia
Missioni militari e interesse nazionale
https://www.radioradicale.it/scheda/535875/missioni-militari-e-interesse-nazionale Convegno "Missioni militari e interesse nazionale", registrato a Roma giovedì 15 marzo 2018 alle 09:23. L'evento è stato organizzato da Center for Near Abroad Strategic Studies. Sono intervenuti: Paolo Quercia (Direttore del CeNASS, Center for Near Abroad Strategic Studies), Massimo Artini (vicepresidente della Commissione Difesa della Camera dei deputati, Misto - Alternativa Libera (gruppo parlamentare Camera)), Fausto Biloslavo (giornalista, inviato di guerra), Francesco Semprini (corrispondente de "La Stampa" da New York), Arije Antinori (dottore di Ricerca in Criminologia ed alla Sicurezza alla Sapienza Università di Roma), Leonardo di marco (generale di Corpo d'Armata dell'Esercito), Fabrizio Cicchitto (presidente della Commissione Affari esteri della Camera, Area Popolare-NCD-Centristi per l'Europa). Tra gli argomenti discussi: Difesa, Esercito, Esteri, Forze Armate, Governo, Guerra, Informazione, Italia, Ministeri, Peace Keeping, Sicurezza. La registrazione video di questo convegno ha una durata di 2 ore e 46 minuti. Questo contenuto è disponibile anche nella sola versione audio

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