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Articolo
13 ottobre 2025 - Prima - Italia - Il Giornale |
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Cento anni di intelligence dal Piave fino a Gaza |
Fausto Biloslavo 31°17′19″Nord - 34°15′07″Est sono le coordinate del “miglio verde”. Non è il titolo di un famoso film, ma il nome di un tragitto pericoloso, sotto le bombe, che sembra interminabile, frequentato dagli agenti della nostra intelligence negli ultimi due anni. Le coordinate indicano il valico di Rafah e il “miglio verde” è la terra di nessuno che separa il lato egiziano da quello palestinese. “Dove sono le armi a dettare legge, lì arrivano gli 007” è una specie di motto degli operativi dell’Aise, l’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna. L’operazione è iniziata “nell’ottobre 2023, quando alcuni connazionali intrappolati nella Striscia di Gaza - tra le bombe israeliane e le violenze sul terreno di bande armate e gruppi di estremisti - si sono visti consegnare da una “mano invisibile” cibo, acqua e medicine” racconta una fonte riservata. “E’ dal “miglio verde” che sono passati gli agenti - aggiunge - e quando successivamente, primi fra tutti nella comunità occidentale, grazie ad uno stratagemma che non si può rivelare, i connazionali sono stati “esfiltrati””. I 100 anni dell’intelligence italiana non è solo una storia di spie, ma una lunga avventura al servizio della Patria in difesa della sicurezza nazionale. Per non parlare del sacrificio, in molti casi estremo, con 18 medaglie d’oro al valor militare fin dalla prima guerra mondiale e 7 caduti in tempo di pace dal 1976 alle missioni all’estero degli ultimi anni. Nell’inferno di Gaza gli agenti sul campo sono stati impiegati pure per evacuare i bambini palestinesi bisognosi di cure, come “la piccola Fatma. Oggi sta bene e, insieme ai genitori, ancora chiede di quell’italiano senza nome - racconta la fonte - che li ha attesi per ore, per poi trasportarli in un’ambulanza della “Mezzaluna Rossa” lungo quell’ultimo “miglio verde”. Lo scorso secolo Giacomo Camillo De Carlo è diventato la “spia volante” a bordo degli aeroplani di allora. E poi si è guadagnato la medaglia d’oro sul fronte del Piave: “Dietro le linee nemiche, sempre ricercato dagli austriaci, organizzò un efficacissimo servizio di trasmissione di informazioni segrete. Celebri i suoi “colombigrammi”, messaggi inviati mediante piccioni viaggiatori”. Francesco De Martini è stato un Lawrence d’Arabia italiano, infiltrato nella corte del Negus in Etiopia, sabotatore durante la seconda guerra mondiale, prima catturato dagli inglesi, poi fuggito, di nuovo operativo e fatto prigioniero per la seconda volta. La medaglia d’oro Edgardo Sogno era “l’anello di congiunzione per il Sim (il Servizio informazioni militare nda) tra l’intelligence inglese e le formazioni partigiane”. I fratelli Li Gobbi, Costanzo Ebat, Guido Rampini sono altri agenti che dopo il 1943 hanno aderito alla resistenza e sono stati imprigionati, torturati o fucilati dai nazifascisti. La medaglia d’oro Paola Del Din, prima donna paracadutista, partigiana, lanciata dietro le linee, ricorda che “il Sim veniva molto considerato dagli inglesi. L’intelligence rimarrà sempre fondamentale. Lo era fin dai tempi dei romani e sarà ancora così per i prossimi 100 anni e oltre”. Il Sim, sciolto nel 1945, ha lasciato il posto al Sifar, il Sid, il Sismi per arrivare fino ad oggi all’Aise. Dopo il ‘45 la guerra fredda diventa il nuovo campo di battaglia. Uno dei leggendari direttori dell’intelligence, dal 1984 al 1991, è l’ammiraglio Fulvio Martini, nato a Trieste, con sangue dalmata nelle vene. Nome in codice Ulisse è lui, come ricorda un generale in congedo dei servizi, che ha definito “la humint, l’intelligence degli agenti sul campo il secondo mestiere più antico del mondo”. La lunga sfida di Ulisse al Kgb, il servizio segreto sovietico, inizia nel 1958 con un colpo di fortuna, quando fotografa a Istanbul le navi di Mosca in transito. La Cia, grazie a questi scatti in bianco e nero, scopre che i sovietici inviavano missili a Cuba. “Che tempi: quando operavo nei Balcani mi era venuto in mente di progettare un sistema semplice di comunicazione, una specie di apparecchio mobile. Adesso tutti lo utilizzano: è il telefonino” mi spiegò Martini nella sua casa di Roma. Ulisse viene condannato a morte da uno dal più sanguinoso gruppo palestinese. “Il 19 dicembre 1985 inviai una segnalazione al ministero dell’Interno e sul circuito internazionale, che si attendeva un attentato di Abu Nidal fra il 25 e il 31 a Fiumicino - ha raccontato - Il 27 dicembre i terroristi spararono all’impazzata nella hall dell’aeroporto. Gli israeliani avevano inviato i loro tiratori scelti che risposero al fuoco. Da quel giorno sono diventato il bersaglio numero uno di Abu Nidal”. A Forte Braschi, la storica sede dei servizi segreti a Roma, è stato inaugurato, il 12 settembre, un sacrario dei caduti dell’intelligence. Due lastre di pietra sempre illuminate: da una parte è incisa la frase “In memoria di coloro che hanno offerto la vita per la patria”. Dall’altra 17 stelle, che ricordano altrettanti caduti. Dopo il crollo del muro di Berlino l’Italia è in prima linea nella missioni internazionali. Vincenzo Li Causi, veterano dell’intelligence “inviato in Somalia, in supporto al contingente italiano muore il 12 novembre 1993, vittima di un agguato”. Medaglia d’oro come Nicola Calipari, che dalla Polizia entra nel Sismi. In Iraq dirige l’operazione per la liberazione della giornalista Giuliana Sirena, sequestrata da un gruppo di insorti. Il 4 marzo 2005, sulla strada verso all’aeroporto, gli americani di un posto di blocco sparano sulla macchina. Calipari, per salvare l’ostaggio, fa scudo con il suo corpo. A Lorenzo Lauria mancano quattro giorni per compiere 33 anni e ha tre figli piccoli a casa. Agente in Afghanistan viene ferito a morte, il 22 settembre 2007, durante il blitz dei corpi speciali inglesi per liberarlo dagli otto sequestratori talebani. Gli afghani lo chiamavano Lorenzo Jan, un appellativo che nella loro lingua e costume significa amico. Si era fatto crescere la barba in stile islamico per mimetizzarsi meglio e girava sempre in borghese indossando anche la tunica ed i pantaloni a sbuffo del posto. Tre anni dopo, a Kabul, cade l’agente dell’Aise Pietro Colazzo durante “un attacco dei talebani, con attentatori suicidi, che semina il terrore per quattro ore consecutive nella capitale provocando 18 morti e oltre 30 feriti”. Le ultime “stelle” sul monumento ai caduti ricordano Claudio Alonzi e Tiziana Barnobi, due agenti che il 28 maggio 2023 perdono la vita nel lago Maggiore durante un naufragio, dettato dal cattivo tempo, ma “nel corso dello svolgimento di una delicata attività operativa con Servizi collegati esteri”. In Iraq, Libia, Afghanistan e adesso a Gaza la nostra intelligence ha mobilitato uno scudo invisibile sul campo di agenti che, in silenzio, rischiano la pelle ogni giorno. In Afghanistan a bordo di fuoristrada con targhe civili entravano ed uscivano dalle basi di giorno e di notte. Nelle zone ostiche, come Farah, le nostre "barbe finte" si facevano accompagnare dal figlio di un trafficante di oppio, come “assicurazione sulla vita”. Un veterano ricorda “che una delle figure più ricercate era il medico. Gli afghani arrivavano a chiedere aiuto dai villaggi più sperduti. Allora mandavi un sanitario e poi lasciavi al capo villaggio una sacca di medicine. Ed i nostri convogli passavano senza danni”. La medaglia d’oro Del Din è convinta che “nessuna intelligenza artificiale potrà mia sostituire gli agenti sul campo”. Il compito degli operativi, le “antenne”, è raccogliere qualsiasi segnale di pericolo, per poi diramare l’allarme ai reparti impegnati nella missione. Come l'utilizzo di manichini con il burqa all'interno di una macchina minata, per far pensare che il terrorista suicida al volante faccia parte di un'allegra famigliola afghana. |
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26 agosto 2023 | Tgcom24 | reportage
Emergenza migranti
Idee chiare sulla crisi dagli sbarchi alla rotta balcanica.
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30 aprile 2020 | Tg5 | reportage
L'anticamera dell'inferno
Fausto Biloslavo
TRIESTE - “Per noi in prima linea c’è il timore che il ritorno alla vita normale auspicata da tutti possa portare a un aumento di contagi e dei ricoveri di persone in condizioni critiche” ammette Gianfranco, veterano degli infermieri bardato come un marziano per proteggersi dal virus. Dopo anni in pronto soccorso e terapia intensiva lavorava come ricercatore universitario, ma si è offerto volontario per combattere la pandemia. Lunedì si riapre, ma non dimentichiamo che registriamo ancora oltre 250 morti al giorno e quasi duemila nuovi positivi. I guariti aumentano e il contagio diminuisce, però 17.569 pazienti erano ricoverati con sintomi fino al primo maggio e 1578 in rianimazione. Per entrare nel reparto di pneumologia semi intensiva respiratoria dell’ospedale di Cattinara a Trieste bisogna seguire una minuziosa procedura di vestizione. Mascherina di massima protezione, tuta bianca, copri scarpe, doppi guanti e visiera per evitare il contagio. Andrea Valenti, responsabile infermieristico, è la guida nel reparto dove si continua a combattere, giorno e notte, per strappare i contagiati alla morte. Un grande open space con i pazienti più gravi collegati a scafandri o maschere che li aiutano a respirare e un nugolo di tute bianche che si spostano da un letto all’altro per monitorare o somministrare le terapie e dare conforto. Un contagiato con i capelli grigi tagliati a spazzola sembra quasi addormentato sotto il casco da marziano che pompa ossigeno. Davanti alla finestra sigillata un altro paziente che non riesce a parlare gesticola per indicare agli infermieri dove sente una fitta di dolore. Un signore cosciente, ma sfinito, con i tubi dell’ossigeno nel naso è collegato, come gli altri, a un monitor che segnala di continuo i parametri vitali. “Mi ha colpito un paziente che descriveva la sensazione terribile, più brutta del dolore, di non riuscire a respirare. Diceva che “è come se mi venisse incontro la morte”” racconta Marco Confalonieri direttore della struttura complessa di pneumologia e terapia intensiva respiratoria al dodicesimo piano della torre medica di Cattinara. La ventilazione non invasiva lascia cosciente il paziente che a Confalonieri ha raccontato come “bisogna diventare amico con la macchina, mettersi d’accordo con il ventilatore per uscire dal tunnel” e tornare alla vita.
Una “resuscitata” è Vasilica, 67 anni, operatrice di origine romena di una casa di risposo di Trieste dove ha contratto il virus. “Ho passato un inferno collegata a questi tubi, sotto il casco, ma la voglia di vivere e di rivedere i miei nipoti, compreso l’ultimo che sta per nascere, ti fa sopportare tutto” spiega la donna occhialuta con una coperta sulle spalle, mascherina e tubo per l’ossigeno. La sopravvissuta ancora ansima quando parla del personale: “Sono angeli. Senza questi infermieri, medici, operatori sanitari sarei morta. Lottano ogni momento al nostro fianco”.
Il rumore di fondo del reparto è il ronzio continuo delle macchine per l’ossigeno. L’ambiente è a pressione negativa per aspirare il virus e diminuire il pericolo, ma la ventilazione ai pazienti aumenta la dispersione di particelle infette. In 6 fra infermieri ed un medico sono stati contagiati. “Mi ha colpito la telefonata di Alessandra che piangendo ripeteva “non è colpa mia, non è colpa mia” - racconta Confalonieri con il volto coperto da occhialoni e maschera di protezione - Non aveva nessuna colpa, neppure sapeva come si è contagiata, ma si struggeva per dover lasciare soli i colleghi a fronteggiare il virus”.
Nicol Vusio, operatrice sanitaria triestina di 29 anni, ha spiegato a suo figlio che “la mamma è in “guerra” per combattere un nemico invisibile e bisogna vincere”. Da dietro la visiera ammette: “Me l’aspettavo fin dalla prime notizie dalla Cina. Secondo me avremmo dovuto reagire molto prima”. Nicol racconta come bagna le labbra dei pazienti “che con gli occhi ti ringraziano”. I contagiati più gravi non riescono a parlare, ma gli operatori trovano il modo di comunicare. “Uno sguardo, la rotazione del capo, il movimento di una mano ti fa capire se il paziente vuole essere sollevato oppure girato su un fianco o se respira male” spiega Gianfranco, infermiere da 30 anni.
Il direttore sottolinea che “il covid “cuoce” tutti gli organi, non solo il polmone e li fa collassare”, ma il reparto applica un protocollo basato sul cortisone che ha salvato una novantina di contagiati. Annamaria è una delle sopravvissute, ancora debole. Finalmente mangia da sola un piattino di pasta in bianco e con un mezzo sorriso annuncia la vittoria: “Il 7 maggio compio 79 anni”.
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11 novembre 2008 | Centenario della Federazione della stampa | reportage
A Trieste una targa per Almerigo Grilz e tutti i caduti sul fronte dell'informazione
Ci sono voluti 21 anni, epiche battaglie a colpi di articoli, proteste, un libro fotografico ed una mostra, ma alla fine anche la "casta" dei giornalisti triestini ricorda Almerigo Grilz. L'11 novembre, nella sala del Consiglio comunale del capoluogo giuliano, ha preso la parola il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Friuli-Venezia Giulia, Pietro Villotta. Con un appassionato discorso ha spiegato la scelta di affiggere all'ingresso del palazzo della stampa a Trieste una grande targa in cristallo con i nomi di tutti i giornalisti italiani caduti in guerra, per mano della mafia o del terrorismo dal 1945 a oggi. In rigoroso ordine alfabetico c'era anche quello di Almerigo Grilz, che per anni è stato volutamente dimenticato dai giornalisti triestini, che ricordavano solo i colleghi del capoluogo giuliano uccisi a Mostar e a Mogadiscio. La targa è stata scoperta in occasione della celebrazione del centenario della Federazione nazionale della stampa italiana. Il sindacato unico ha aderito all'iniziativa senza dimostrare grande entusiasmo e non menzionando mai, negli interventi ufficiali, il nome di Grilz, ma va bene lo stesso. Vale la pena dire: "Meglio tardi che mai". E da adesso speriamo veramente di aver voltato pagina sul "buco nero" che ha avvolto per anni Almerigo Grilz, l'inviato ignoto.
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25 maggio 2010 | Spazio Radio - Radio 1 | intervento |
Italia
L'Islam nelle carceri italiane
In Italia su oltre 23mila detenuti stranieri, 9840 risultano musulmani, secondo i dati ufficiali. Almeno seimila, però, non si sono dichiarati. Il rapporto di 364 pagine, “La radicalizzazione jihadista nelle istituzioni penitenziarie europee”, realizzato dall’esperto di Islam nella carceri, Sergio Bianchi, ne indica 13mila.
In Italia ci sono circa 80 islamici dietro le sbarre per reati connessi al terrorismo. Dal 2009 li hanno concentrati in quattro istituti di pena: ad Asti, Macomer, Benevento e Rossano. Nel carcere di Opera, invece, sono arrivati Adel Ben Mabrouk, Nasri Riadh e Moez Abdel Qader Fezzani, ex prigionieri di Guantanamo. Chi li controlla ogni giorno racconta che parlano in italiano. La guerra santa in Afghanistan l’hanno abbracciata dopo aver vissuto come extracomunicatori nel nostro paese. Non si possono incontrare fra loro e vivono in celle singole. Pregano regolarmente con molta devozione e hanno mantenuto i barboni islamici.
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24 maggio 2010 | Radio Padania Libera | intervento |
Italia
Proselitismo islamico dietro le sbarre
“Penso che sia giusto se alcuni musulmani combattono la guerra santa contro gli americani in paesi che non sono la loro terra”. Dopo un lungo girarci attorno Kamel Adid sorprende un po’ tutti, quando sputa il rospo. La domanda riguardava i mujaheddin, i musulmani pronti a morire per Allah, contro l’invasore infedele. Tre soldati della guerra santa, arrivati un paio di mesi fa da Guantanamo, sono rinchiusi poco più in là, nel reparto di massima sicurezza del carcere di Opera, alle porte di Milano.
Adid è un giovane marocchino di 31 anni con barbetta islamica d’ordinanza e tunica color noce. Nel carcere modello di Opera fa l’imam dei 44 musulmani detenuti, che frequentano una grande sala adibita a moschea. Un predicatore fai da te, che di solito parla un linguaggio moderato e ti guarda con occhioni apparentemente timidi.
Deve scontare ancora due mesi di pena per un reato legato alla droga e da pochi giorni è stato trasferito in un altro istituto. “Quelli che si fanno saltare in aria subiscono il lavaggio del cervello – si affretta a spiegare l’autonominato imam – Noi abbiamo riscoperto la fede in carcere. Pregare ci da conforto, ci aiuta ad avere speranza”.
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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento |
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo
I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti.
“Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale.
I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria.
Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa.
In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo.
“In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani.
Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.
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06 settembre 2018 | Radio immaginaria | intervento |
Italia
Teen Parade
Gli adolescenti mi intervistano sulla passione per i reportage di guerra
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15 marzo 2018 | Radio Radicale | intervento |
Italia
Missioni militari e interesse nazionale
https://www.radioradicale.it/scheda/535875/missioni-militari-e-interesse-nazionale
Convegno "Missioni militari e interesse nazionale", registrato a Roma giovedì 15 marzo 2018 alle 09:23. L'evento è stato organizzato da Center for Near Abroad Strategic Studies. Sono intervenuti: Paolo Quercia (Direttore del CeNASS, Center for Near Abroad Strategic Studies), Massimo Artini (vicepresidente della Commissione Difesa della Camera dei deputati, Misto - Alternativa Libera (gruppo parlamentare Camera)), Fausto Biloslavo (giornalista, inviato di guerra), Francesco Semprini (corrispondente de "La Stampa" da New York), Arije Antinori (dottore di Ricerca in Criminologia ed alla Sicurezza alla Sapienza Università di Roma), Leonardo di marco (generale di Corpo d'Armata dell'Esercito), Fabrizio Cicchitto (presidente della Commissione Affari esteri della Camera, Area Popolare-NCD-Centristi per l'Europa). Tra gli argomenti discussi: Difesa, Esercito, Esteri, Forze Armate, Governo, Guerra, Informazione, Italia, Ministeri, Peace Keeping, Sicurezza. La registrazione video di questo convegno ha una durata di 2 ore e 46 minuti. Questo contenuto è disponibile anche nella sola versione audio
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