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Reportage
10 agosto 2008 - Esteri - Afghanistan - Il Foglio
Viaggio a Kandahar
GARMSIR (Afghanistan meridionale) – “Signore, qualsiasi cosa accada là fuori noi siamo nelle tue mani. Aiutaci a trovare la forza per superare le prove di questa missione. Amen”. La preghiera, all’alba, raccoglie i rudi marines di Camp Dweyr, una base infernale nella provincia afghana di Helmand, attorno a Jolanda Gillen. Una donna esile, di colore, ma con la vibrante forza della fede nelle parole. In mimetica chiazzata, come gli altri uomini in armi, non porta il fucile, ma una piccola croce nera sul bavero dell’uniforme. E’ un cappellano protestante dei marines, nell’Afghanistan musulmano, che accompagna i soldati in battaglia. Là fuori c’è solo deserto e le trappole esplosive dei talebani, l’incubo peggiore. I marines infilano la piastrina di riconoscimento nei lacci degli scarponi. “Così se saltiamo in aria ed il corpo si spezza in due riconosceranno anche le nostre gambe e le riporteranno a casa” raccontano i soldati delle truppe da sbarco più famose del mondo.
Il viaggio verso il fronte dei marines, nel sud dell’Afghanistan, inizia a Kandahar nella grande base della Nato che occupa l’aeroporto. L’ultima volta che sono atterrato a Kandahar governava ancora mullah Mohammed Omar, il capo talebano di “tutti i credenti”, come amava farsi chiamare. Per raggiungere la città dall’aeroporto si prendeva uno scassato autobus afghano rigorosamente separato a metà da un lenzuolo. Davanti gli uomini con i turbanti e dietro le donne segregate e sotto il burqa color turchese.
Oggi all’aeroporto c’è il comando del fronte sud della Nato ricavato in una costruzione bassa e a grandi volte, simile ad un caravanserraglio. Nel 2001 era l’ultima ridotta dei talebani. A centinaia si trincerarono all’interno. Una bomba d’aereo di mille chili colpì in pieno l’improvvisato bunker. Dei talebani non rimase nulla, ma l’enorme buco sul soffitto c’è ancora, al centro della costruzione. Nel cratere a cielo aperto la Nato ha piantato la sua bandiera, che svetta verso il cielo. In quest’estate di guerra in Afghanistan è quasi ogni giorno a mezz’asta, per i soldati uccisi in prima linea.
“E’ la mia quarta missione di guerra. Quando parto mia madre va in chiesa ed accende un cero” racconta il maggiore “Filippo” Williams del 24imo MEU, uno dei corpi di spedizione dei marines più tosti. Sua madre è friulana e ha sposato un sottufficiale americano della base di Aviano, dove vivono in pensione. Filippo è nato a Vicenza 38 anni fa. Ad Aviano ha studiato fino alle superiori e sciava a Piancavallo. Poi, per non fare la naja in Italia, ha rinunciato alla cittadinanza andando a cercare fortuna negli Stati Uniti. Voleva volare e ha trovato sulla sua strada i marines diventando un pilota di F 18, i mostri d’acciaio che decollano dalle portaerei. Fisico da giocatore di football e sorriso spontaneo parla perfettamente l’italiano. Nel 2003 è partito dalla portaerei Truman, nel Mediterraneo, per bombardare la Guardia repubblicana di Saddam Hussein. “Dopo aver sganciato sono rimasto a guardare l’impatto delle bombe sulla caserma vicino a Baghdad – racconta il maggiore – Dei piccoli funghi si alzavano dal terreno, come nei film. Peccato che il resto della pattuglia era già sulla via del ritorno. Mi sono trovato da solo in un perfetto cielo blu”. In Afghanistan è già stato due volte. A terra, a guidare gli attacchi degli elicotteri e dei caccia, perché i marines fanno tutto. Per cercare di catturare un comandante talebano nel distretto di Surobi, a sud est di Kabul, ha usato un gregge di pecore puzzolenti per avvicinarsi all’obiettivo. “Una sera il nostro Humvee (i gipponi bassi e larghi degli americani) è saltato su una mina. Per fortuna era solo anti uomo e ci ha portato via un pneumatico, ma la botta l’ho sentita lo stesso” racconta il maggiore, che ha anche un cuore. Quando può si attacca al computer e via Skype saluta Sofia, che farà due anni a dicembre. “L’altro giorno quando mi ha visto ha detto “dad” (papà) – sottolinea l’ufficiale dei marines – Vuol dire che non mi ha ancora dimenticato”.
Il maggiore Williams fa parte del comando del 24imo corpo di spedizione a Kandahar. Duemila e 400 uomini sbarcati in Afghanistan a metà marzo con tanto di aerei, elicotteri e mezzi di ogni genere. L’unità è famosa per aver recuperato con una rocambolesca missione, Scott O’Grady, il pilota americano abbattuto dai serbi durante la guerra del Kosovo. Veterani dell’Iraq, i marines del 24imo sono intervenuti anche in patria per portare soccorso ai sopravissuti del ciclone Katrina.
Una macchina da guerra che nella provincia afghana di Helmand, la più “calda” dell’Afghanistan, ha sgominato le roccaforti talebane nella parte settentrionale del distretto di Garmsir. I marines si sono spinti più a sud di qualsiasi reparto della Nato, verso il Pakistan. L’obiettivo è spezzare le infiltrazioni dei talebani tagliando uno delle loro principali vie di rifornimento.
In aprile e maggio hanno scatenato l’inferno a Garmsir assaltando bunker talebani ed eliminando comandanti influenti. Nella zona i seguaci di mullah Omar avevano creato un piccolo “emirato” dettando legge alla popolazione locale. Oggi non è più così. Secondo le autorità afghane della provincia di Helmand i marines avrebbero ucciso circa 400 talebani con l’operazione Hazada wosa. In pasthun significa “restate liberi”. Il 24imo Meu ha perso solo 3 marines e altri 23 sono rimasti feriti. La compagnia Alfa, che dobbiamo raggiungere in prima linea, ha sostenuto in 35 giorni 117 “contatti” con il nemico. Solo i suoi tiratori scelti hanno ucciso un centinaio di talebani. Fra Garmsir ed il Pakistan, però, i talebani continuano a vivere indisturbati per 140 chilometri.
In questa estate nella trincea afghana mi accompagna Gian Micalessin, un vecchio amico. L’avventura del giornalismo di guerra l’abbiamo iniziata assieme 25 anni fa proprio in Afghanistan. Nell’agosto del 1983 siamo arrivati da queste parti con i mujhaeddin, provenienti dal Pakistan. La differenza è che quella volta i partigiani islamici combattevano contro l’Armata rossa.
Da Kandahar ci imbarcano su un volo notturno per Camp Bastion, il quartier generale inglese nella provincia di Helmand. Con giubbotto antiproiettile, elmetto e zaino in spalla passiamo ore ai bordi della pista. Alla fine ci addormentiamo. All’1 e 30 ci svegliano i piloti di un elicottero dei marines. Si decolla verso sud per raggiungere la base avanzata. Non ci fermano i talebani, ma una tempesta di sabbia, che costringe l’elicottero a tornare indietro. Solo il giorno dopo riusciremo ad atterrare a Camp Dwyer, l’anticamera dell’inferno.
I marines hanno tirato su una base dal nulla nel famigerato distretto di Garmsir. Cilindri riempiti di sabbia fanno da perimetro ad una tendopoli ricavata in mezzo al deserto. La base serve a rifornire gli avamposti avanzati, ma il caldo soffocante e la polvere che si infila dappertutto la fa assomigliare ad un girone dantesco. Nonostante le punte di 50 gradi i marines fanno pesi sotto i teli mimetici, mentre noi ci sciogliamo al sole. Sotto le tende, quando non funzionano i condizionatori d’aria, sembra di fare una sauna. Cani per la ricerca di esplosivi, marines, intrepreti afghani in mimetica e giornalisti convivono nel caldo torrido, una brandina da campo a fianco dell’altra. Trovare una bottiglia d’acqua fresca è un’impresa. Per fortuna ci sono le Mre, le razioni di combattimento americane, dai mille menù. A lungo andare, però, hanno sempre lo stesso sapore di gomma da masticare.
Sembra incredibile, ma nel campo infernale riprendono fiato i marines delle compagnie in prima linea. Ragazzotti che non superano i 25 anni, provenienti da tutti gli stati dell’Unione. Non si lamentano mai. E raccontano senza filtri le loro storie di guerra.
“Laredo, il mio plotone, è arrivato per primo. Abbiamo piazzato i mortai di fronte ad una madrassa (scuola coranica) il nostro obiettivo. Ci hanno ordinato di far fuoco per creare uno schermo fumogeno alle truppe che avanzavano a piedi. Quando lasci andare il primo colpo nel tubo del mortaio pensi solo una cosa: finalmente si comincia” racconta il caporale Jacob Lasselle, 22 anni, del Maine. Riccioluto con la faccia da bravo ragazzo, chiama i marines “fratelli”. Ci descrive le prime fasi dell’attacco, il 26 aprile, alle roccaforti talebane nella parte settentrionale di Garmsir. L’offensiva è durata fino a giugno. Nei marines si è arruolato a 18 anni, come il padre ed il nonno, che ha combattuto nella seconda guerra mondiale. “Papà adesso è nella Guardia nazionale e arriverà a Kandahar nel marzo del prossimo anno – spiega il giovane Lasselle – Anche la mamma vorrebbe venire in Afghanistan per lavorare con la cooperazione umanitaria”. Il giorno più lungo del caporale dei marines è quando la compagnia Bravo si è trovata circondata dai talebani. “In 24 ore abbiamo lanciato 36 colpi di mortaio da 81 millimetri. I talebani avevano bunker sotterranei in cemento armato, ma alla fine siamo riusciti a tirar fuori i ragazzi dai guai” racconta orgoglioso Lasselle.
Non tutto fila liscio in guerra. “La madrassa era diventata la nostra postazione. I civili fuggivano passandoci davanti e dovevamo controllarli che non nascondessero terroristi suicidi. Siamo abituati alla popolazione che ci insulta e protesta, ma gli afghani collaboravano. I bambini sorridevano chiedendoci qualcosa da mangiare. Tutto sembrava andare per il meglio fino a quella maledetta sera di metà maggio” ricorda il caporale. Lasselle sta rientrando alla madrassa, dopo aver preso dei rifornimenti, quando un boato lo fa sobbalzare. Una prima granata esplode con fragore a 400 metri dalla sua postazione lasciandolo a bocca aperta. Poi arriva un’altra e un’altra ancora, sempre più vicine. “Erano troppo possenti. Non potevano essere che colpi di artiglieria, quella dei marines. Si trattava di fuoco amico. Ho acceso il visore a infrarossi e mi sono reso conto che un elicottero stava puntando con il laser i miei uomini per dirigere il tiro” spiega il giovane sottufficiale. I cannoni dei marines rischiavano di incenerire una loro unità. “Ho gridato cessato il fuoco, cessate il fuoco alla radio con tutto il fiato che avevo in gola – racconta Lasselle - Per fortuna l’artiglieria ha smesso di sparare”.
Per raggiungere l’avamposto della compagnia Alfa bisogna svegliarsi alle 5 e un quarto del mattino pregando che quel giorno i talebani non abbiano piazzato una trappola esplosiva sul percorso, come hanno fatto due volte nell’ultima settimana. Una decina di mezzi pesanti con i rifornimenti per le basi avanzate sono pronti a partire. Su ogni camion c’è una torretta con mitragliatrice. Molti autisti sono donne. Alcune giovani e carine, in tuta simile a quella dei meccanici e con i capelli raccolti dietro la nuca. Fra le donne spicca un sergente maggiore, con occhialoni neri, che lancia ordini gutturali e si fa rispettare dai marines. Ci piazzano a bordo di un camion corazzato, che trasporta pure combustibile. Quando chiedo al comandante del convoglio cosa fare in caso di imboscata o trappola esplosiva, per evitare di finire arrostito, la risposta che ripete è sempre la stessa: “stai a bordo”. Se gli avessi chiesto cosa fare in caso di attacco atomico sarebbe stato uguale.
Si parte, con i gipponi blindati davanti e le torrette armate dei camion che girano di continuo alla ricerca di una preda. Il paesaggio è lunare. Un deserto di pietra con qualche rivolo di verde quando ci si avvicina ai resti di casupole in fango e paglia. Nel primo centro abitato che incontriamo, da quando siamo partiti da Kandahar, i marines sparano in aria. Per fare accostare le automobili afghane al passaggio del convoglio. Temono terroristi suicidi. Ogni afghano sul ciglio della strada deve alzare le mani, tirarsi su la classica tunica di questa parti che indossa sui pantaloni a sbuffo, per mostrare che non porta cinture esplosive.
Il paesaggio è cambiato: un’oasi verde ha lasciato spazio al deserto. Grazie ai canali di irrigazione, costruiti negli anni cinquanta dagli americani, che distribuiscono l’acqua del fiume Helmand. Dopo una mattinata di viaggio su strade impossibili, spesso a passo d’uomo, sentiamo un nugolo dei elicotteri Cobra. Svolazzano su “Apache nord”, il comando avanzato della compagnia Alfa, ricavato fra quattro mura sbrecciate. I marines hanno strappato questa fetta di Afghanistan ai talebani con le unghie e con i denti.
Fausto Biloslavo
(1 continua)







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28 agosto 2008 | Studio Aperto | reportage
Afghanistan: italiani in guerra
Studio aperto, Tg1 e Tg2 hanno lanciato il nostro servizio esclusivo di Panorama sui soldati in guerra in Afghanistan. Le immagini che vedete non sono state girate da me o da Maki Galimberti che mi accompagnava come fotografo, come dicono nel servizio, bensì dagli stessi soldati italiani durate la battaglia di Bala Murghab.
Di seguito pubblico il testo che ho ricevuto dai coraggiosi cineoperatori con l'elmetto: "Nei giorni dell’assedio di Bala Murghab il 5,6,7 e 8 agosto, con i fucilieri della Brigata Friuli erano presenti anche quattro militari Toni T. , Francesco S. , Giuseppe N. , Giuseppe C. , tutti provenienti dal 28° Reggimento “Pavia” di istanza Pesaro. È stato proprio il C.le Mag.Sc. Francesco S. a girare le immagini che vedete con una telecamera di fortuna, in condizioni difficili e con grande rischio personale.Infatti tra i compiti assolti dal 28° Reggimento di Pesaro c’è proprio la raccolta di informazioni e documentazioni video sulle operazioni di prima linea".

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