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Reportage
14 agosto 2008 - Prima - Afghanistan - Il Foglio
A dieci secondi dai talebani
GARMSIR - “Stavo lanciando una granata quando ho visto un talebano che alzava il kalashnikov sopra quel muro maledetto. In un attimo è partita una sventagliata di colpi verso di noi. A cinque metri da me il caporale William Cooper è caduto come un sasso, colpito in pieno”. Per un attimo la voce del sergente Joseph Buonpastore, 23 anni, si incrina ricordando il compagno caduto. Biondino e sbarbatello, il giovane marine ci saluta in italiano. Lo zio Rocco vive a Milano ed i nonni stanno ancora in provincia di Matera, da dove è partito il padre di Joseph in cerca di fortuna in America.
Il sergente Buonpastore è il protagonista di uno dei combattimenti più duri dei marines del 24imo Corpo di spedizione nel distretto di Garmsir, nell’Afghanistan meridionale. Un assalto ad un reticolo di bunker talebani in cemento armato e piastre d’acciaio nel villaggio di Wakil Kamal. La notte del 19 maggio Buonpastore è alla testa della prima squadra del 4° plotone della compagnia Alfa. “Stavamo marciando verso ovest, ma dei cani ci hanno annusato cominciando ad abbaiare. Ricordo che volevo oltrepassare un muretto, quando ho visto le fiammate dei primi spari”. I talebani sono asserragliati in sei bunker, oltre un muro che corre per decine di metri. Nel muro ci sono feritoie e fessure dove si appostano i fondamentalisti in armi. I marines di Buonpastore finiscono sotto il fuoco di due postazioni ben mimetizzate. “Ho gridato al primo nucleo di avanzare e tirare delle granate contro i bunker. Poco dopo ho visto un talebano che stava lanciando verso di me un razzo Rpg. Mi è passato davanti a 60 centimetri e quando è esploso mi ha gettato a terra. Ero stordito, ma ancora vivo e nemmeno ferito” racconta il sergente.
Talebani e marines scatenano un fuoco d’inferno. Gli uomini di Buonpastore sbrecciano a colpi di mitragliatrice pesante uno dei bunker, ma non basta. Il sergente è a poco più di 5 metri dalla postazione fortificata dei talebani e si ripara come può dietro un muretto alto qualche decina di centimetri. “Strappo la linguetta di una bomba a mano e la lancio dritta dentro il primo bunker. Dopo l’esplosione i talebani non sparano più, ma da un’altra postazione continuano a bersagliarci” racconta Buonpastore. I talebani sparano anche da un buco nel muro e allora il sergente dei marine prende una decisione ardita. Ordina ai suoi di coprirlo con tutta la potenza di fuoco a disposizione. Prende un razzo a spalla Low, si inginocchia nel turbinio di proiettili, prende la mira grazie al visore notturno e preme il pulsante di tiro. “Il razzo entra proprio nel buco come volevo ed esplode dall’altra parte del muro. Abbiamo sentito i talebani urlare e disperarsi, ma la battaglia non era finita” ricorda Buonpastore. Arrivano i rinforzi compresi gli Scout sniper, i tiratori scelti. Uno di questi è il caporale Cooper. Non fa neppure in tempo a prendere la mira su qualche talebano, che una raffica di kalashnikov sparata oltre il maledetto muro lo fulmina. I paramedici di prima linea corrono in mezzo al fuoco per trascinare il corpo in un avallamento. “Il polso era debolissimo. Uno dei ragazzi gli ha messo le dita in gola per tirargli fuori il sangue, ma non c’è stato nulla da fare” spiega il sergente. I marines si scatenano sparando con tutto quello che hanno, ma l’ordine è ripiegare per portarsi via il caduto. “Siamo una grande “famiglia” – spiega Buonpastore – quando un marine muore in combattimento per noi è come perdere un fratello”.
La vendetta degli americani arriva poco dopo con un velivolo senza pilota armato di missile HellFire (Fuoco d’inferno). Su un computer ci fanno assistere alla scena in bianco e nero ripresa dalla telecamera del drone. Si vede dall’alto la zona dei bunker, dove è morto Cooper. Ad un certo punto due talebani escono da una postazione per parlottare con un terzo integralista, probabilmente il comandante che viene fuori da un altro bunker. Sono figurine nere, che si distinguono benissimo. Il mirino bianco e rettangolare del velivolo “killer” li inquadra. Un attimo dopo la vampata di un’esplosione irrompe sullo schermo. Oltre alla fiammata e al fumo nero provocati dall’impatto del missile si notano brandelli di corpi umani che volano dappertutto. Non è finita. Quando il fumo si dirada appare la scena più raccapricciante. Uno dei talebani colpiti è ancora vivo, ma ha perso tutte e due le gambe. Si trascina sui gomiti per qualche metro, fino a quando crolla per sempre. La vendetta dei marines per il caporale Cooper è compiuta.
La battaglia nella parte settentrionale del distretto di Garmsir è durata da fine aprile agli inizi di giugno. I marines hanno sparato 600 colpi di artiglieria, 500 granate di mortaio e chiamato 42 volte l’appoggio aereo o degli elicotteri d’attacco per bombardare i talebani. Gli “insorti”, come li chiamano gli americani, hanno combattuto duramente e con coraggio. Tenendo conto che i marines hanno una schiacciante superiorità di fuoco. Fra i 500 talebani che hanno difeso con le unghie e con i denti le loro roccaforti dagli assalti del 24° Corpo di spedizione c’erano anche una cinquantina di pachistani. “Li usavano come carne da macello. A tal punto che quando venivano feriti li lasciavano morire, perché costava troppo evacuarli fino in Pakistan” spiega il capitano Sean Dynan, 32 anni, comandante della compagnia Alfa, che ci ospita in prima linea. I corpi speciali americani hanno fatto il resto. Lal Mohammed un venerato comandante talebano del distretto di Garmsir è stato ucciso con un raid mirato, per fiaccare il morale degli avversari. I talebani gli hanno tributato un funerale con tutti gli onori.
Il sergente William Bee, 26 anni dell’Ohio, invece, è rinato una seconda volta. “C’era un attimo di pausa nella battaglia. Stavamo seduti al coperto, rilassati, quando ho sentito il primo colpo. Sembrava un cecchino” racconta il veterano dei marine che si è arruolato a 18 anni. “Stavo alzando la testa sopra un muretto di fango per capire qualcosa. Volevo controllare la zona con il mirino telescopico del mio fucile mitragliatore. In quel momento è arrivato il secondo colpo, che ha sbrecciato il muretto. Ricordo solo un forte rumore, spruzzi di terriccio sul volto e che sono caduto. Nelle orecchie sembrava che suonassero delle campane” racconta il miracolato. Un paio di fotografie lo ritraggono quando il muretto gli esplode in faccia a causa dell’impatto del proiettile talebano. Il cecchino gli ha sparato, ma Bee è rimasto illeso grazie ad un palmo di fango afghano.
Goran Tomasevic, il fotografo serbo che ha scattato queste incredibili immagini gli ha detto: “Ricordati questa data, 19 maggio, perché sei nato una seconda volta”. La moglie del sergente, in cinta da 7 mesi, ha visto le foto sulla Cnn il giorno dopo e stava per svenire. Poi il sergente Bee è riuscita a chiamarla via telefono satellitare per dirle che sta bene.
Mentre i marines raccontano le loro storie di guerra ci sorvola radente un elicottero d’attacco Cobra. Al secondo passaggio lancia uno scatolone di dolciumi dentro Apache nord l’avamposto di comando della compagnia Alfa, sollevando il giubilo dei soldati. Ogni unità ha il nome di una tribù indiana. Il campo avanzato è in mezzo ad una zona irrigata dai canali della provincia di Helmand. I marines utilizzano gli Hesco bastion, dei grandi cilindri di terra, per proteggersi e costruire delle improvvisate camerate all’aperto. Tavole di legno e teli mimetici fanno da tetto. Le brande da campo dei marines sono allineate una accanto all’altra. Nell’antro dove dormono il puzzo di sudore si mescola alla sabbia e al caldo torrido. Nessuno si lamenta e tutti hanno a fianco della branda il giubbotto antiproiettile, l’arma e l’elmetto. Qualcuno ritaglia le foto di donnine in costume. In una delle “camerate” da prima linea è distesa sullo sfondo una grande bandiera americana. Quando non escono in pattuglia i marines si incollano alle cuffiette per ascoltare musica, giocano a carte, oppure guardano un film in dvd sul computer portatile. A parte le moderne tecnologie sembra di essere in mezzo ad un film sul Vietnam, ai tempi delle epopee americane in mezzo alle risaie.
In Afghanistan va di moda montare i video sulle operazioni, che una volta finivano subito su You tube. Adesso ogni marine deve firmare un impegno a non diffondere le immagini. Il video della compagnia Alfa si apre con un filmato dall’alto. Un velivolo senza pilota riprende lo “sbarco” dei marines nel distretto di Garmisr il 29 aprile. Si vedono le pale di un elicottero ed i soldatini che scendono di corsa prendendo posizione. Poi si passa all’azione con gli elicotteri Cobra che scaricano una valanga di fuoco sulle postazioni talebane. Le immagini sono riprese di notte ed il colore verdastro di fondo rende ancora più drammatica la scena. La scia di un missile lanciato da un Cobra disegna nel cielo un serpente, fino a quando non colpisce l’obiettivo. Non mancano i marines che sparano a raffica dalle torrette degli Humve, i gipponi bassi e larghi dei soldati americani. I bossoli schizzano davanti alla telecamera. Le immagini da film hollywoodiano sono quelle della colonna di marines in filo indiana in primo piano. Sullo sfondo salta in aria un arsenale di esplosivo talebano fatto brillare dai soldati americani. Oppure il bombardamento con i cannoni da 155 millimetri di un compound nemico. Si vedono prima delle colonne di fumo bianco che si innalzano come fontane. Poi fiammate e un’enorme nuvola nera lunga una cinquantina di metri che avvolge tutta la postazione. Sullo schermo compare la scritta senza equivoci “we got the bastards” (abbiamo preso i bastardi). I marines amano i dettagli e ci fanno notare che prima di una terrificante esplosione si vede sullo schermo, in alto a destra, un piccolo puntino nero. La bomba da 250 chilogrammi sganciata da uno dei caccia Harrier del 24° Corpo di spedizione. Una squadra ha usato per il suo video-ricordo “In the air tonight” la canzone di Phil Collins riadattata dalla banda Non point. Quando la percussione della batteria arriva all’apice scatta l’attacco.
I video rendono l’idea, ma sono le parole dei marines a raccontare la guerra in Afghanistan. Il sergente Jeffrey Shuh non dimenticherà mai l’imboscata che il 15 maggio 21 uomini del 3° plotone hanno teso ai talebani. “Eravamo nascosti in un canale di irrigazione da sei ore. Qualcuno con l’acqua fino alle ginocchia e tormentati dalle zanzare. Il problema maggiore era rimanere fermi e nel più totale silenzio” racconta il marine di 23 anni, originario della Florida. I soldati americani stanno 5 metri l’uno dall’altro e gli ordini vengono trasmessi a gesti, a catena. I talebani dovrebbero passargli davanti ad una decina di metri, fra gli alberi. Lungo un percorso che utilizzano per i rifornimenti ed il cambio della guardia alle postazioni. I marines si appostano 30 minuti dopo mezzanotte e l’imboscata scatta alle 7 del mattino. “A 10 metri da me stava camminando un talebano sui vent’anni, con una tunica ed i pantaloni a sbuffo, che usano da queste parti, color chiaro. Non portava il turbante e teneva l’arma abbassata, perchè non si aspettava un’imboscata. Quando ci ha visto ho letto chiaramente l’espressione di grande sorpresa e paura sul suo volto” racconta il sergente.
I marines aprono il fuoco assieme al giovane talebano. Shuh sente una botta sul fianco sinistro e finisce a terra, ma continua a sparare. Altri talebani che stanno arrivando sparano fra gli alberi. L’imboscata si trasforma in dieci minuti di inferno. Shuh è a terra e capisce di essere stato colpito, ma non perde sangue. Un proiettile del primo talebano gli ha spappolato l’angolo della piastra laterale del giubbotto anti proiettile. Il colpo ha procurato solo delle bruciature sulla pelle. I talebani caduti nell’imboscata sono tutti morti. Il sergente Shuh è ancora vivo e mostra con orgoglio ai giornalisti la cicatrice a V sotto l’ascella. Qualche millimetro più in là ed il proiettile lo avrebbe ucciso.
Fausto Biloslavo
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28 agosto 2008 | Studio Aperto | reportage
Afghanistan: italiani in guerra
Studio aperto, Tg1 e Tg2 hanno lanciato il nostro servizio esclusivo di Panorama sui soldati in guerra in Afghanistan. Le immagini che vedete non sono state girate da me o da Maki Galimberti che mi accompagnava come fotografo, come dicono nel servizio, bensì dagli stessi soldati italiani durate la battaglia di Bala Murghab.
Di seguito pubblico il testo che ho ricevuto dai coraggiosi cineoperatori con l'elmetto: "Nei giorni dell’assedio di Bala Murghab il 5,6,7 e 8 agosto, con i fucilieri della Brigata Friuli erano presenti anche quattro militari Toni T. , Francesco S. , Giuseppe N. , Giuseppe C. , tutti provenienti dal 28° Reggimento “Pavia” di istanza Pesaro. È stato proprio il C.le Mag.Sc. Francesco S. a girare le immagini che vedete con una telecamera di fortuna, in condizioni difficili e con grande rischio personale.Infatti tra i compiti assolti dal 28° Reggimento di Pesaro c’è proprio la raccolta di informazioni e documentazioni video sulle operazioni di prima linea".

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