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Reportage
09 settembre 2008 - Prima - Afghanistan - Il Foglio
Nel fortino segreto degli italiani
DELARAM - I blindati italiani bloccano la strada con i militari pronti a sparare. Il fumogeno verde indica la direzione del vento per l’elicottero che deve atterrare sulla striscia d’asfalto, altrimenti sprofonderebbe nella sabbia. Un altro Ch 47 ci ronza attorno con i mitraglieri a caccia di talebani, che da queste parti appaiono e compaiono come fantasmi. Si esce di corsa dal ventre dell’elicottero ed una vampata di aria torrida ti investe con la forza di un cazzotto. Il paesaggio è desertico e lunare.
Benvenuti nell’inferno di Delaram, dove la compagnia Diavoli difende un fortino all’estremo sud dello schieramento italiano. L’ottantina di uomini del 66° reggimento Trieste si trova oltre Farah, la provincia più ostica dell’Afghanistan occidentale. Li comanda il capitano Giordano Gemma, pistola legata alla coscia, occhi azzurri e baffi alla Gengis Khan.
La piccola base ha aperto i battenti agli inizi di maggio e fino ad oggi nessun giornalista ci aveva messo piede. L’ex fortino sovietico a pochi passi dalla cittadina di Delaram mantiene ancora qualche vecchia camerata in muratura e la torre di guardia. Un’altra torre è sbrecciata dalle cannonate. La leggenda vuole che i buchi siano stati provocati dai carri T 62 dei mujaheddin ai tempi della disfatta dell’Armata rossa. Delaram è uno snodo strategico lungo la “ring road”, la grande strada circolare che percorre l’Afghanistan. Ad una cinquantina di chilometri c’è Camp Bastion, il quartier generale inglese nella provincia di Helmand. Oltre le mura del fortino si annidano talebani e kamikaze.
I Diavoli sono stati attaccati due volte, ma le vere scene dantesche a Delaram le hanno vissute i bersaglieri dell’8° reggimento. Il 15 maggio ed il 18 giugno due kamikaze si sono fatti esplodere nel bazar. L’obiettivo era la stazione di polizia, ma hanno fatto strage di civili.
“Il terrorista si copriva con un burqa verde e puntava ad una camionetta della polizia. Alle 9 e un quarto è saltato in aria in mezzo alla gente. Abbiamo sentito l’esplosione e visto la colonna di fumo che si alzava da Delaram, ma non sapevamo ancora cosa ci aspettava” racconta il capitano Mario Galati. Viene da Bari ha 31 anni ed il 28 luglio è nel fortino al comando della compagnia Demoni.
Dopo la strage del kamikaze rimane solo una gamba. La base italiana è l’unico posto nel raggio di chilometri dove c’è un medico degno di questo nome. “Hanno cominciato a portarci le vittime dell’attentato. Poliziotti, anziani, bambini dilaniati. Morti e feriti arrivavano tutti assieme” ricorda l’ufficiale dei bersaglieri. Le scene davanti agli occhi dei militari italiani sono da girone dantesco. Qualcuno le documenta con brevi filmati e drammatiche fotografie. “Ad un anziano l’esplosione aveva portato via la mandibola. Un altro vomitava sangue, ma non sembrava avesse ferite esterne evidenti. Un bambino, in stato comatoso, è stato subito intubato. Ci siamo dannati per salvarlo, ma purtroppo l’abbiamo perso” spiega il capitano Galati.
I militari italiani usano delle fettucce colorate per segnalare la gravità dei feriti. Quella rossa è per i senza speranza. Le barelle sono solo tre ed i soldati usano le loro brande da campo. Alla fine della giornata dovranno bruciarle perché sono intrise di sangue.
La base si trasforma in lazzaretto con i morti da una parte ed i feriti sistemati in ogni angolo dove c’è un po’ d’ombra. Il sole è implacabile ed il medico gira con le iniezioni di morfina. La scelta di chi occuparsi per primo è drammatica. Inutile perdere tempo con i casi irrecuperabili. Meglio concentrarsi sui feriti che hanno qualche speranza di sopravvivere. Il fratello di un poliziotto dilaniato dal kamikaze si dispera e chiede per pietà al medico di salvare il suo caro. I feriti si lamentano ed i militari italiani si fanno in quattro nell’inferno di Delaram. Spostano a braccia i cadaveri o tengono le flebo di chi può farcela. Si infilano i guanti di lattice e diventano tutti soccorritori. “Un ragazzo aveva una brutta lesione ad un gamba vicino alla femorale. Perdeva molto sangue ed uno dei nostri gli è rimasto accanto premendo sulla benda insanguinata per fermare l’emorragia….Fino a quando è morto” racconta il giovane comandante dei bersaglieri.
Alla radio con il comando di Herat il capitano Galati fa il conteggio dei morti, che salgono di ora in ora fino a raggiungere 17 vittime. I feriti, molti dei quali gravi, sono 12. Gli elicotteri inglesi e spagnoli per evacuarli arrivano nel primo pomeriggio. I feriti vengono caricati su un camion della polizia. Chi arriva all’elicottero, che non spegne mai i motori, è in salvo. “Nel tragitto di poche centinaia di metri dalla base ne abbiamo perso un altro” ricorda Galati.
Il 18 giugno la scena del kamikaze si ripete, ma questa volta ci sono solo tre morti e 10 feriti. Il terrorista suicida si è riempito il giubbotto esplosivo di biglie d’acciaio, che si sono conficcate come proiettili nella carne delle vittime. Fra i morti c’è pure un bambino di 10 anni. “Abbiamo cercato in tutti i modi di salvarlo – spiega il capitano dei bersaglieri – Con il massaggio cardiaco, la ventilazione artificiale, ma aveva ferite dappertutto…”.
La base di Delaram è un bubbone per i talebani, che ogni tanto la punzecchiano. L’ultimo razzo è arrivato il 18 agosto, ma il 28 luglio i fondamentalisti in armi hanno scatenato un attacco in piena regola. Quel giorno, di guardia sugli spalti, c’è la prima squadra Scorpioni del maresciallo Egidio De Lorenzo. Un soldato tutto d’un pezzo, di 31 anni, che viene da Potenza. La torretta più alta, dove sventola il tricolore, viene investita dallo spostamento d’aria del primo razzo che piomba ad una cinquantina di metri dal fortino. Alle 13 e 30 il sole batte implacabile e la temperatura è di 52 gradi. L’impatto del razzo è come un fulmine a ciel sereno. “Mi sono messo l’elmetto, il giubbotto antiproiettile ho preso l’arma e sono corso verso la torretta. Dopo l’esplosione del razzo avevano cominciato a spararci a raffica da diverse postazioni” racconta il maresciallo di ferro. Sente il fischio di un altro razzo, che passa sopra la testa dei soldati italiani ed esplode dietro la base. I talebani utilizzano anche i mortai. “Un colpo è arrivato a 100 metri sollevando un cono di sabbia dal terreno. Francesco ha individuato da dove ci sparavano. Gaspare con il binocolo mi indicava distanza dal nemico e direzione. Ho cominciato a sparare brevi raffiche con la mitragliatrice Browning rispondendo al fuoco per una ventina di minuti” racconta De Lorenzo. Lo scontro va avanti ad intermittenza. I soldati italiani si inerpicano su una improvvisata scaletta di legno per trasportare le cassette di munizioni alle postazioni del fortino. Fin dal mattino c’era qualcosa di strano nell’aria. Nell’abitato di Delaram non si notava anima in giro. Non a caso i talebani sparano da postazioni molto vicine alle case. Gli italiani chiamano l’appoggio aereo e arriva un caccia americano, che non riesce a distinguere il nemico e a sganciare. Il caccia si limita a passare in volo radente per intimorire i talebani.
“Dopo una quarantina di minuti finisce tutto. Mi ricordo che eravamo inzuppati di sudore e stanchi. Durante il combattimento non senti niente…., ma poi viene fuori quello che hai dentro” racconta il maresciallo della brigata Friuli.
A Delaram può capitarti di tutto. Il capo della polizia è stato ammazzato ad un posto di blocco. I talebani sono arrivati in macchina e gli hanno sparato dal finestrino dileguandosi. “Un proiettile lo ha preso alla nuca. Sono riuscito a stabilizzarlo e a farlo evacuare in elicottero, ma era gravissimo” spiega il capitano medico Federico Norante. Trentanove anni, di Vicenza, ha ricavato in una stanzetta disadorna dell’ex base sovietica un’efficiente pronto soccorso.
Nella provincia di Farah chi collabora con la Nato fa spesso una brutta fine. Un ufficiale di polizia afghano è stato recentemente rapito e portato in un villaggio in mano ai talebani. Dopo un sommario processo in nome della legge islamica l’hanno sgozzato in pubblico per dare l’esempio.
Gli italiani che tengono Delaram organizzano posti di blocco e controlli con la polizia e l’esercito afghani. Pattugliano la zona e talvolta trovano armi oppure ordigni inesplosi di guerre del passato o di oggi. Gli artificieri li fanno brillare in mezzo al deserto, ma la compagnia Diavoli non sta solo con il dito sul grilletto. I militari italiani distribuiscono aiuti alla popolazione e organizzano ambulatori volanti per curare i civili. L’obiettivo è conquistare i cuori e le menti degli afghani per tagliare i legami con i talebani. “Possiamo vincere solo attirando dalla nostra parte la popolazione. I talebani impongono la loro presenza e spesso fra gli stessi anziani dei villaggi si annidano i loro capi” sostiene il generale Francesco Arena, che comanda il settore ovest dell’Afghanistan. Per controllare quattro province (Herat, Farah, Ghor e Badghis) ha solo 2800 uomini. Spagnoli, sloveni, albanesi e 1.421 soldati italiani. Troppo pochi per tenere un territorio grande come il nord Italia.
La provincia più pericolosa è quella di Farah, dove la brigata Friuli non tiene solo avamposti come Delaram. Nei mesi scorsi, assieme a truppe americane, i soldati italiani hanno partecipato all’operazione Bazar. La missione ha portato alla “liberazione” di Bakwa, una delle roccaforti talebane nella zona di Farah.
Il maresciallo Alfonso Capasso è nato per indossare la divisa. Clase 1976 viene dalla provincia di Napoli. Comandante del 2° plotone aeromobile della task force Aquile era in prima linea nell’operazione Bazar. “Ad un paio di chilometri dal villaggio di Bakwa ci hanno segnalato che due persone stavano fuggendo in moto” racconta Capasso. Il suo plotone sta avanzando sulla famigerata strada 515, che i talabeni hanno più volte disseminato di trappole esplosive. Solitamente sono micidiali piatti a pressione costruiti con tavole di legno appoggiati su delle molle. Quando passa un blindato della Nato schiaccia le tavole e chiude il contatto che fa esplodere l’ordigno.
Gli uomini di Capasso cinturano l’area ed il nucleo artificieri procede con cautela in cerca della trappola esplosiva. “Abbiamo visto del terreno smosso – spiega il maresciallo – I talebani avevano sotterrato una bombola del gas piena di tritolo. Stavano sistemando il piatto a pressione sul percorso del nostro convoglio, quando ci hanno visti e sono fuggiti”.
Se i reparti italiani non sono in missione si rilassano a Camp Arena, la grande base di Herat. Una cittadella con tanto di pizzeria, ristorante, bar fornito di super alcolici, lavanderia e accessoriata palestra. Per non parlare dei punti internet da dove i militari parlano con le famiglie via computer. In patria mamme non più giovani hanno imparato ad usare le diavolerie della rete. Pur di restare in contatto dall’Italia con i figlioli in missione. Ogni computer ha una piccola telecamera per “vedersi” con la moglie o la fidanzata. I bambini puntano il dito sullo schermo e dicono “papà”.
Fausto Biloslavo

video
20 settembre 2009 | Domenica Cinque | reportage
I parà di Kabul
Su Canale 5: Più che eroi i paracadutisti caduti in Afghanistan sono soldati che hanno fatto il loro dovere fino in fondo

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28 ottobre 2012 | TG5 | reportage
Afghanistan: un botto e la polvere dell'esplosione che invade il blindato
L’esplosione è improvvisa, quando meno te l’aspetti, lungo una pista arida, assolata e deserta. I soldati italiani si sono infilati fra le montagne di Farah nell’Afghanistan occidentale infestato da talebani. Una colonna di fumo alta una quindicina di metri si alza verso il cielo. Il tenente Davide Secondi, 24 anni, urla alla radio “siamo saltati, siamo saltati” su un Ied, le famigerate trappole esplosive disseminate dai talebani. Non hai neppure il tempo di capire se sei vivo o morto, che la polvere invade il super blindato Cougar fatto apposta per resistere a questi ordigni. E’ come se la mano del Dio talebano afferrasse il bestione da 14 tonnellate in movimento fermandolo come una macchinina giocattolo. A bordo siamo in cinque ancorati ai sedili come in Formula uno per evitare di rimbalzare come birilli per l’esplosione. La più esposta è Mariangela Baldieri, 24 anni, del 32° genio guastatori alpini di Torino. Addetta alla mitragliatrice, metà del corpo è fuori dal mezzo in una torretta corazzata. Si è beccata dei detriti e sul primo momento non sente dall’orecchio destro. Almeno venticinque chili di esplosivo sono scoppiati davanti agli occhi di Alessio Frattagli, 26 anni, al volante. Il caporal maggiore scelto Vincenzo Pagliarello, 31 anni, veterano dell’Afghanistan, rincuora Mariangela. Siamo tutti illesi, il mezzo ha retto, l’addestramento dei guastatori ha fatto il resto. Cinquanta metri più avanti c’era un’altra trappola esplosiva. Il giorno prima a soli venti chilometri è morto in combattimento l’alpino Tiziano Chierotti. La guerra in Afghanistan continua.

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12 aprile 2010 | Porta a porta | reportage
Duello senza peli sulla lingua con Strada
Gioco sporco e tinto di giallo sulla sorte dei tre volontari italiani di Emergency in manette con l’accusa di essere coinvolti in un complotto talebano per uccidere il governatore della provincia afghana di Helmand. Opsiti di punta: il ministro degli Esteri Franco Frattini , Piero Fassino del Pd e Gino Strada, fondatore di Emergency

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radio

19 agosto 2008 | Radio24 | reportage
Afghanistan
Taccuino di guerra - I Lawrence d'Arabia italiani
Afghanistan,un'estate in trincea.In prima linea con i soldati italiani

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22 agosto 2008 | Radio24 | intervento
Afghanistan
Raid americano polverizza un villaggio nella provincia di Herat
Afghanistan, un'estate in trincea.

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28 agosto 2008 | Radio24 | reportage
Afghanistan
Taccuino di guerra - Torno a casa dopo un mese in trincea
Afghanistan,un'estate in trincea.In prima linea con i soldati italiani

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07 agosto 2008 | Radio24 | reportage
Afghanistan
Taccuino di guerra - In pattuglia con i marines
Afghanistan, un'estate in trincea. In prima linea con i marines

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18 agosto 2008 | Radio 24 | reportage
Afghanistan
Taccuino di guerra - La battaglia di Bala Murghab
Afghanistan,un'estate in trincea.In prima linea con i soldati italiani

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