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Cronaca
09 giugno 2009 - Cronaca - Italia - Il Foglio
La manualità dell'ingegnere
Corva (Pordenone). “Io Unabomber?”
è il titolo del libro che Elvo Zornitta
ha quasi finito di scrivere. Negli
ultimi cinque anni la sua vita si è trasformata
in un inferno. L’ingegnere,
che vive in un paesino di 2.200 anime
in provincia di Pordenone, era piombato
nel mirino degli investigatori, che
hanno dato inutilmente la caccia al misterioso
maniaco soprannominato
“Unabomber”. Ventisei attentati riusciti
o scoperti, veri o presunti, dal 1994
al 2006. Tutti nel nord-est realizzati con
miniordigni nascosti nei tubetti di pomodoro
dei supermercati, abbandonati
sulle spiagge, sotto la sella di una bicicletta,
in chiesa o addirittura nello
sciacquone di un bagno del Palazzo di
Giustizia di Pordenone. Le trappole
esplosive erano congegnate non per uccidere,
ma per mutilare o ferire. Le vittime
di Unabomber sono state casalinghe,
una bambina, turisti, che per caso
si ritrovavano fra le mani gli ordigni.
“Del libro sono pronti sette capitoli
su dieci. Ho già contatti per pubblicarlo,
ma devo realizzarci qualcosa
per rifarmi delle spese sostenute in
questi cinque anni da incubo. Mi hanno
proposto anche un film per la televisione.
Una fiction in due o tre puntate
su una rete nazionale”, racconta al
Foglio Zornitta. Prima di darlo alle
stampe il manoscritto deve passare ai
raggi X dei suoi due angeli custodi: gli
avvocati Maurizio Paniz (deputato del
Pdl soprannominato il “Berlusconi
delle Dolomiti” e candidato alle europee)
e Paolo Dell’Agnolo, che si sono
battuti per scagionarlo. Lo scorso marzo
il tribunale di Trieste ha definitivamente
archiviato l’accusa di maniaco
bombarolo, che dal 2004 pesava sulla
testa dell’ingegnere di 52 anni. Non è
lui Unabomber. Oltre a un alibi di ferro,
almeno per un attentato, la “prova
regina” che avrebbe dovuto incastrarlo,
il lamierino di un ordigno, è stata
manipolata.
L’incredibile vicenda ha aperto un
altro processo in cui Zornitta da mostro
del nord-est dipinto dai giornali,
grazie alle dritte degli investigatori, è
parte civile che chiede giustizia per
cinque anni di accuse che gli hanno rovinato
la vita. “Fin dall’inizio sono stato
considerato un presunto colpevole.
La mia sfortuna è essere finito in un ingranaggio
che doveva trovare a tutti i
costi qualcuno da sbattere in galera.
L’antipatia di alcuni investigatori, di
uno in particolare che si definiva ‘professionista’
al quale in più di un’occasione
ho risposto a modo, ha fatto il resto”,
spiega Zornitta. L’ingegnere è seduto
al tavolo della cucina della sua
casetta di Corva, vicino ad Azzano Decimo,
nel Friuli profondo. Posto tranquillo,
con un piccolo giardino davanti
e dietro, incastrato in una sfilza di villette
a schiera semplici e ordinate. Per
mesi e a ondate successive, che seguivano
le rivelazioni sul presunto Unabomber,
la tranquilla casetta della famiglia
Zornitta è stata cinta d’assedio
dai giornalisti. “Una mattina mi sveglio
alle sette, esco sul balcone e mi trovo
di fronte una telecamera che sbirciava
dentro casa – racconta l’ingegnere – Le
novità giudiziarie sul mio caso le sapevo
dai giornali. Una domenica, appena
uscito dalla messa, un giornalista mi
coglie di sorpresa con una domanda a
bruciapelo: “Sa che è stata trovata la
prova che la incastra?”. Brutti ricordi
che hanno coinvolto tutta la famiglia.
Sua figlia Lucia è addestrata a non
aprire, soprattutto ai giornalisti (mi ha
lasciato giustamente fuori dal cancello
fino all’arrivo di suo padre che rientrava
dal lavoro, un posto di ripiego ottenuto
grazie alla solidarietà di un imprenditore
locale, perché l’impiego di
progettazione di prima l’ha perso).
Barbetta, sguardo sempre triste, occhiali
da persona normale, l’ingegnere
si sfoga pian piano. All’inizio sembra
un fiume carsico ancora immerso in
profondità, poi andando avanti nel racconto
della sua incredibile vicenda
giudiziaria erutta come un vulcano raccontando
tutto. Alla fine mi porta in giro
per la casa dove ha trovato le cimici
che lo controllavano giorno e notte, oppure
nello sgabuzzino utilizzato per riparare
orologi, una sua passione. Gli
investigatori lo avevano scambiato per
il laboratorio di Unabomber.
“Tutto è cominciato alle 6.45 del 26
maggio 2004 con sedici agenti che sono
piombati a casa mia per una perquisizione
trattandomi come un cane. Uno
mi ha chiesto: ‘Sa perché siamo qui?’–
ricorda Zornitta – Ho risposto che sarà
per Unabomber, perché sui giornali
scrivevano che stavano controllando la
zona. ‘Vede che lo sa’, mi ha risposto in
tono inquisitorio”. Gli agenti se ne sono
andati quattordici ore dopo.
L’anonimo ingegnere che si era fatto
le ossa all’Oto Melara, industria della
difesa, aveva sempre vissuto come
una persona assolutamente normale.
Felicemente sposato, una figlia che lo
adora, passeggiate in montagna, qualche
viaggetto culturale, mai troppo
lontano, fede in Dio e messa la domenica.
“Da zero visibilità su Internet sono
balzato a 105 mila voci dedicate a
Elvo Zornitta. Per non parlare di You-
Tube e delle deformazioni sui giornali”,
sottolinea l’ingegnere. Unico indagato
per il caso Unabomber finisce nel
frullatore dei media. Dichiarazioni come
“solo io, Dio e il mio confessore
sappiamo che non sono il colpevole” si
trasformano in “il mio confessore sa
chi è il colpevole”. Una bomboletta di
gas che gli sequestrano viene spacciata
come identica a quella trovata sul
luogo di un attentato. In realtà si tratta
di tutt’altro, a cominciare dalle dimensioni.
Meglio stendere un velo sulle
frasi attribuite a Zornitta inventate
di sana pianta. “Per me erano colpi di
maglio, che puntavano a esercitare
una pressione incredibile”, osserva
l’ingegnere. “Il gioco avveniva sempre
in due sensi, fra investigatori e giornalisti.
Da una parte si voleva arrivare al
crollo di Zornitta e dall’altra guadagnare
notorietà con uno scoop”.
Il problema del sospettato numero
uno è la sua grande manualità: “Vede
queste mensole, il lampadario, i lavori
in giardino? Ho fatto tutto io”. Per di
più ha la mania di non buttare via nulla
mettendo da parte qualsiasi cosa
che potrebbe servire. Gli investigatori
si convincono che con le sue mille
cianfrusaglie e gli attrezzi da lavoro
Zornitta fabbrichi i miniordigni di
Unabomber. Il primo “laboratorio” sospetto
è al secondo piano, dove ripara
orologi. Piccolo, senza finestre e vicino
alla stanza della figlia difficilmente
avrebbe potuto maneggiare in quest’antro
acidi ed esplosivi. Allora si
passa alla mansardina della casa dei
genitori, ma ben presto anche questa
pista crolla. Alla fine gli investigatori
“scoprono” un capanno vicino casa,
che Zornitta ha acquistato dal diacono
dal paese. “Ci tenevo gli attrezzi e lo
usavo forse una volta al mese. Nel giardino
c’è una statua della Madonna davanti
alla quale si recita il rosario, assieme
ai compaesani, ogni mese di
maggio. Il capanno è automaticamente
diventato “il bunker dei misteri” o “il
laboratorio dei sospetti”, spiega Zornitta.
Nel capanno viene sequestrato
un po’ di tutto comprese diverse forbici.
Una di queste diventa “la prova regina”,
perché avrebbe tagliato un lamierino
recuperato da un ordigno di
Unabomber. Il settembre del 2006 è il
mese peggiore per l’ingegnere stritolato
dalla macchina mediatico-giudiziaria
che si autoalimenta. “Un bombardamento
continuo di pseudo prove a
mio carico”, ricorda Zornitta. “Mi sembrava
di sprofondare negli inferi”. Il
presunto colpevole scrive a Scotland
Yard e all’Fbi in cerca di precedenti su
forbici e lamierini. Poi va in giro per
l’Italia con una lunga lista di periti,
adatti al suo caso, trovati su Internet.
“Non cercavo qualcuno che assumesse
l’incarico attirato dalla notorietà della
vicenda. Volevo persone capaci e oneste,
che se scoprivano una verità per
me scomoda l’avrebbero tirata fuori”,
sottolinea l’ingegnere. Ne trova due di
persone oneste, Alberto Riccadonna di
Mantova e Paolo Battaini di Varese,
che gli salvano la vita, o quantomeno
una lunga condanna in carcere.
Poco prima del Natale 2006 riceve la
chiamata di Battaini, che non vuole
parlare al telefono, sicuramente sotto
controllo, ma dice: “Qualcosa non quadra,
dobbiamo vederci subito”. Con il
cuore in gola Zornitta lo raggiunge di
notte sul lago di Garda: “Sentivo tutti i
peli del corpo drizzarsi addosso”. Il perito
ha analizzato minuziosamente le
fotografie del lamierino scattate quando
è stato ritrovato l’ordigno. E le ha
raffrontate con quelle dello stesso lamierino
utilizzato qualche tempo dopo
per dimostrare che era stato tagliato
dalle forbici di Zornitta. Così è riuscito
a scoprire la manomissione della famosa
“prova regina”. “Volevano incastrarmi
a tutti i costi”, spiega Zornitta.
“La differenza fra il lamierino originario
e lo stesso utilizzato per l’incidente
probatorio, ma che è stato alterato, è di
0,36 millimetri, l’equivalente di una
quindicina di capelli”. Fra il Natale
del 2006 e il gennaio del 2007 l’ingegnere
vive fra l’angoscia di che cosa sarebbe
stato capace di fare chi tentava
di incastrarlo e la speranza di uscire
definitivamente dall’incubo. Alla fine
arriva la relazione del Ris (Reparto investigazioni
scientifiche) di Parma che
conferma l’alterazione. Prima di tirare
un sospiro di sollievo, vedendo cadere
le accuse, ci vorranno oltre due anni.
La leggenda vuole che l’intero paesino
del presunto colpevole sia imbottito
di telecamere e microspie. Non è
così, ma Zornitta ha scoperto da solo le
cimici nascoste a casa sua. Per anni l’abitazione
rimane sotto sorveglianza
con tre microfoni e una telecamera
esterna. Altre tre telecamere filmano il
famigerato “capanno dei misteri”. “Anche
l’automobile di mia moglie, come
tutte le nostre vetture, era controllata
via gps e con una cimice. I telefoni di
tutta la famiglia, comprese le utenze
dei miei genitori, erano regolarmente
intercettati”. Poi l’ingegnere si alza per
indicarmi dove ha trovato la prima cimice,
mentre montava il condizionatore,
nascosta in una presa di corrente.
“Controllando le prese ne ho scoperte
tre e lasciate dov’erano – ricorda Zornitta
– Mi ha fatto infuriare il fatto che
una l’avessero piazzata in camera da
letto”. L’uomo più sorvegliato del nordest,
sempre difeso a spada tratta dalla
famiglia, si aggrappa alla fede per non
impazzire. Le armi che teneva regolarmente
in casa non sono mai state sequestrate.
“A un certo punto le ho regalate,
perché la tentazione di usarle
contro di me o contro chi mi ha crocefisso
era alta”, ammette il presunto colpevole.
“Nel momento più grigio ho
pensato: adesso mi ammazzo. Pensiero
poco cattolico, ma molto umano. Poi un
amico psicologo mi ha fatto presente
che avevo una figlia”.
Lucia ha 13 anni e considera il padre
un eroe che ha combattuto contro
il mondo intero. Da quando è iniziata
questa storia soffre di frequenti emicranie.
“Io e mia moglie volevamo un
altro figlio – ammette Zornitta – Poi è
iniziato l’accanimento contro di me e
abbiamo lasciato perdere. Non era
proprio il caso”. L’unico palliativo per
la piccola Lucia è stato l’arrivo in casa
di Tigghi, un gattone sornione che gironzola
a suo agio fra cucina e salotto.
Durante le indagini Zornitta perde il
lavoro con la scusa di una ristrutturazione.
Quando viene riconosciuto, a un
negozio o in giro per strada, lo trattano
come un appestato. Soltanto i compaesani
fanno quadrato, ma riceve pure
solidarietà inaspettate, come la lettera
di un sindaco del Cadore dove è nato.
Un dubbio che continua ad aleggiare
sull’intera vicenda è la scomparsa
nel nulla di Unabomber. Il maniaco
smette di compiere attentati quando il
cerchio investigativo sembra stritolare
Zornitta. “Sarebbe facile rispondere
che ha colpito cinque volte quando ero
già sotto sorveglianza”, replica l’ingegnere.
“Unabomber potrebbe essere
morto oppure impossibilitato a compiere
attentati perché malato o finito
dietro le sbarre per qualche altro reato”.
Dei profili del maniaco ha la nausea,
ma si chiede “come ha potuto eludere
le telecamere di sorveglianza dei
centri commerciali o del tribunale di
Pordenone. E’ uscito indenne da un dedalo
di controlli. Evidentemente aveva
un asso nella manica”.
L’archiviazione del suo caso giudiziario,
chiesta lo scorso dicembre, è arrivata
ai primi di marzo su decisione
del Gip Enzo Truncellito del tribunale
di Trieste. Sull’indagato il pubblico ministero
Federico Frezza ha scritto:
“Colpisce l’elevato numero di (…) alibi.
E pare davvero difficile eluderli tutti
uno dopo l’altro”. Il presunto colpevole,
oramai scagionato, è passato al contrattacco.
In seguito all’esposto degli
avvocati di Zornitta sull’alterazione del
lamierino di Unabomber la procura di
Venezia apre un fascicolo per calunnia
e falsificazione di prove. Dal 28 novembre
scorso è sotto processo a Mestre
l’assistente di polizia Ezio Zernar
per la presunta manomissione del lamierino.
Lo ha analizzato quando era
direttore del Laboratorio di indagini
criminali di Venezia ma non era l’unico
ad averlo maneggiato. Nel processo
Zornitta è parte civile e gli avvocati
hanno confermato la richiesta di 2,5
milioni di euro per i danni subiti.
“Mi hanno rovinato la vita. Penso di
avere diritto a un risarcimento morale
e materiale. Basterebbe l’ammissione
che lo stato italiano ha combinato questo
pasticcio. Sono pronto ad andare
avanti fino alla Corte europea se necessario”,
giura l’ingegnere. Zernar si
dichiara innocente, e il processo si sta
trasformando nell’ennesima battaglia
fra periti su come e perché il famoso
lamierino sia stato alterato. In una recente
deposizione fiume di otto ore
nell’aula del tribunale, l’imputato ha
respinto punto per punto le accuse.
“Non ho manomesso il lamierino, non
ho mai manomesso nulla”, ha sentenziato
Zernar, ma il suo caso potrebbe
essere soltanto la punta di un iceberg.
La squadra costituita per scovare
Unabomber ha indagato per anni
spendendo un sacco di soldi. Il poliziotto
è difeso dall’avvocato Emanuele
Fragasso, uno dei più noti e costosi
del Veneto. Sulla vicenda rimangono
punti mai chiariti. Il pm Frezza, per
esempio, ha parlato di più attentatori.
O forse potrebbe trattarsi di gente che
piazzava pseudo ordigni per alimentare
la leggenda del maniaco che ha terrorizzato
il nord-est. “Ipotizzare un’unica
mano dietro alcuni tubi-bomba
privi di nitroglicerina, abbandonati su
una spiaggia o in una vigna e in un vasetto
di Nutella collocato in un supermercato
due anni più tardi – scrive
Frezza – è null’altro che un’opera di
intuizione creativa, indimostrata e indimostrabile”.
Zornitta vuole “la verità una volta
per tutte”. “Sono sicuro che alcune
persone in ambito investigativo si sono
lasciate prendere la mano da assurde
convinzioni personali. E’ finita
con l’amaro in bocca, senza uno straccio
di scuse. Anzi ho notato una specie
di convinzione che nei miei confronti
era stata fatta la cosa giusta”. A
Pasqua l’ingegnere ha “festeggiato” la
fine dell’incubo con un pellegrinaggio
ad Assisi e Gubbio assieme ai suoi cari.
“Abbiamo assistito al rito della
crocefissione, molto toccante. Tutti
hanno le proprie croci e io ne ho portata
una per cinque anni. Sono sicuro
che se fossi stato un povero disgraziato,
una persona meno stabile, senza
una famiglia solida alle spalle mi sarei
impiccato sotto un ponte. O finivo
in carcere, dove avrebbero buttato via
la chiave”.
L’incubo comincia il 26
maggio 2004 alle 6.45. L’abilità
nel fai-da-te rende Zornitta un
presunto colpevole
Ci sono voluti due anni per
dimostrare che la “prova regina”
era stata manomessa. Le cimici
nella stanza da letto
“Io Unabomber?” è il libro in
preparazione. Ci sono già sette
capitoli. Serve a descrivere
cinque anni di inchieste
Che fine ha fatto Unabomber?
“E’ uscito indenne da un dedalo
di controllo. Evidentemente
aveva un asso nella manica”
Parte del materiale sospetto per confezionare bombe sequestrato dall’Fbi all’altro Unabomber, Ted Kaczynski
Una pipebomb dimostrativa, simile agli ordigni costruiti da Unabomber

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05 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
Islam, matrimoni forzati e padri assassini
Nosheen, la ragazza pachi­stana, in coma dopo le spranga­te del fratello, non voleva spo­sarsi con un cugino in Pakistan. Il matrimonio forzato era stato imposto dal padre, che ha ucci­so a colpi di mattone la madre della giovane di 20 anni schiera­ta a fianco della figlia. Se Noshe­e­n avesse chinato la testa il mari­to, scelto nella cerchia familia­re, avrebbe ottenuto il via libera per emigrare legalmente in Ita­lia. La piaga dei matrimoni com­binati nasconde anche questo. E altro: tranelli per rimandare nella patria d’origine le adole­scenti dove le nozze sono già pronte a loro insaputa; e il busi­ness della dote con spose che vengono quantificate in oro o migliaia di euro. Non capita solo nelle comuni­tà musulmane come quelle pa­chistana, marocchina o egizia­na, ma pure per gli indiani e i rom, che sono un mondo a par­te.

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23 aprile 2012 | Premio Lago | reportage
Il premio Giorgio Lago: Arte, impresa, giornalismo, volontariato del Nord Est
Motivazione della Giuria: Giornalista di razza. Sempre sulla notizia, esposto in prima persona nei vari teatri di guerra del mondo. Penna sottile, attenta, con un grande amore per la verità raccontata a narrare le diverse vicende dell’uomo.

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10 giugno 2008 | TG3 regionale | reportage
Gli occhi della guerra.... a Bolzano /1
Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, non dimentica i vecchi amici scomparsi. Il 10 giugno ha visitato a Bolzano la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” dedicata ad Almerigo Grilz. La mostra è stata organizzata dal 4° Reggimento alpini paracadutisti. Gli ho illustrato le immagini forti raccolte in 25 anni di reportage assieme ad Almerigo e Gian Micalessin. La Russa ha ricordato quando "sono andato a prendere Fausto e Almerigo al ritorno da uno dei primi reportage con la mia vecchia 500 in stazione a Milano. Poco dopo li hanno ricoverati tutti e due per qualche malattia". Era il 1983, il primo reportage in Afghanistan e avevamo beccato l'epatite mangiando la misera sbobba dei mujaheddin, che combattevano contro le truppe sovietiche.

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03 gennaio 2011 | Radio Capodistria - Storie di bipedi | intervento
Italia
Gli occhi della guerra
Le orbite rossastre di un bambino soldato, lo sguardo terrorizzato di un prigioniero che attende il plotone di esecuzione, l’ultimo rigagnolo di vita nelle pupille di un ferito sono gli occhi della guerra incrociati in tanti reportage di prima linea. Dopo l’esposizione in una dozzina di città la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” è stata inaugurata a Trieste. Una collezione di immagini forti scattate in 25 anni di reportage da Fausto Biloslavo, Gian Micalessin e Almerigo Grilz, ucciso il 19 maggio 1987 in Mozambico, mentre filmava uno scontro a fuoco. La mostra, che rimarrà aperta al pubblico fino al 20 gennaio, è organizzata dall’associazione Hobbit e finanziata dalla regione Friuli-Venezia Giulia. L’esposizione è dedicata a Grilz e a tutti i giornalisti caduti in prima linea. Il prossimo marzo verrà ospitata a Bruxelles presso il parlamento europeo.Della storia dell'Albatross press agency,della mostra e del libro fotografico Gli occhi della guerra ne parlo a Radio Capodistria con Andro Merkù.

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24 maggio 2010 | Radio Padania Libera | intervento
Italia
Proselitismo islamico dietro le sbarre
“Penso che sia giusto se alcuni musulmani combattono la guerra santa contro gli americani in paesi che non sono la loro terra”. Dopo un lungo girarci attorno Kamel Adid sorprende un po’ tutti, quando sputa il rospo. La domanda riguardava i mujaheddin, i musulmani pronti a morire per Allah, contro l’invasore infedele. Tre soldati della guerra santa, arrivati un paio di mesi fa da Guantanamo, sono rinchiusi poco più in là, nel reparto di massima sicurezza del carcere di Opera, alle porte di Milano.
Adid è un giovane marocchino di 31 anni con barbetta islamica d’ordinanza e tunica color noce. Nel carcere modello di Opera fa l’imam dei 44 musulmani detenuti, che frequentano una grande sala adibita a moschea. Un predicatore fai da te, che di solito parla un linguaggio moderato e ti guarda con occhioni apparentemente timidi.
Deve scontare ancora due mesi di pena per un reato legato alla droga e da pochi giorni è stato trasferito in un altro istituto. “Quelli che si fanno saltare in aria subiscono il lavaggio del cervello – si affretta a spiegare l’autonominato imam – Noi abbiamo riscoperto la fede in carcere. Pregare ci da conforto, ci aiuta ad avere speranza”.

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03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
Italia
Professione Reporter di Guerra


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20 giugno 2017 | WDR | intervento
Italia
Più cittadini italiani con lo ius soli
Estendere la cittadinanza italiana ai bambini figli di stranieri? È la proposta di legge in discussione in Senato in questi giorni. Abbiamo sentito favorevoli e contrari.

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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