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Articolo
19 agosto 2010 - Interni - Italia - Il Giornale |
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Prigioniero dei sovietici, sono vivo grazie a lui |
«Comprendo il grande dolore per la privazione della libertà a cui è sottoposto suo figlio e altrettanto profondamente condivido la sua angoscia di madre per gli sviluppi di questa vicenda nel complesso contesto della situazione politica in Afghanistan» scriveva Francesco Cossiga su carta intestata della presidenza della Repubblica nel 1988, quando languivo nelle galere di Kabul. A 26 anni e con il sacro fuoco del reportage in corpo avevo raggiunto dal Pakistan i mujaheddin del leggendario comandante Ahmad Shah Massoud, che combatteva l’Armata rossa in Afghanistan e anni dopo diventerà la prima vittima dell’11 settembre. Sulla via del ritorno mi acciuffarono i governativi consegnandomi ai paracadutisti russi. Il mondo era ancora diviso in due blocchi e non tutti si sbracciavano per liberare un giovane free lance in galera a Kabul. Se fosse stato per l'Unità avrei dovuto restare a marcire dietro le sbarre comuniste. Nessuno si sognò di proporre scambi di prigionieri e tantomeno di risolvere la questione nel minor tempo possibile, come capita oggi. Uno dei pochi che si impegnò veramente per tirarmi fuori fu il presidente Cossiga. Una piccola vicenda, nel contesto delle grandi storie che hanno visto il compianto «picconatore» come protagonista. Un rivolo di guerra fredda, con missive presidenziali rispedite al mittente, che dimostra quanto controcorrente e pronto quasi a tutto fosse Cossiga per salvare un italiano nelle grinfie del Kgb e dei suoi accoliti. A mia madre scriveva: «Quanto ad un mio personale intervento vorrei che lei fosse certa, che così come in passato svolgerò anche in futuro ogni possibile passo che sia destinato a rivelarsi utile e che mi venga suggerito nella pienezza della sua competenza dal governo ». Un tribunale socialista di Kabul mi condannò a 7 anni di carcere, reo di aver fatto il mio lavoro da giornalista, quando in Afghanistan ci andavano pochi a raccontare l’occupazione sovietica. Adesso è assai più facile sparare a zero sui cattivoni della Nato. Quella volta si rischiava una lunga galera a raccontare l’occupazione. Il mio destino era scontare la pena nel triste penitenziario di Pol i Charki, alle porte di Kabul, che esiste ancora oggi. Ironia della sorte proprio l’Italia si è impegnata, negli ultimi anni, a rendere questo carcere più umano. Ai tempi dei sovietici era una catacomba di cemento dove il 90 per cento dei detenuti aveva subito torture. Molti finivano con un colpo di pistola alla nuca nelle fosse comuni poco distanti da Pol i Charki. Non penso che sarei sopravvissuto a lungo. A Roma, però, Cossiga aveva più coraggio di altri e seguiva da vicino il mio caso. La faccenda era complicata dalla ferma posizione della Nato di non riconoscere il governo filo sovietico di Mohammed Najibullah. Il presidente afghano, ex capo della polizia segreta, era soprannominato «il macellaio», perché dicono che avesse strangolato dei prigionieri con le sue mani. Una decina d’anni dopo verrà evirato e impiccato dai talebani ad un lampione di Kabul. Cossiga non si perse d’animo e buttò giù una prima lettera, che prendeva spunto dalla mobilitazione di Trieste, la mia città, per farmi tornare a casa. Il presidente si rivolgeva genericamente alle autorità afghane invocando la mia liberazione. La prima bozza arrivò a Kabul nella mani dell’incaricato d’affari italiano, Enrico Calamai, che doveva ottenere il gradimento degli afghani. «La lettera era troppo generica. Najibullah voleva venir preso maggiormente in considerazione. Così suggerii di cambiare il tono indicando alcune correzioni » racconta Adi, un pezzo grosso del ministero degli Esteri afghano di allora, che oggi si è ricostruito una vita ed una posizione in Europa. La leggenda vuole che il testo del presidente italiano fosse stato addirittura corretto con la matita rossa e blu, ma forse è solo un’esagerazione.In ogni caso Calamai riferì tutto a Roma, correzioni comprese. Cossiga non si scompose e riscrisse la missiva «con un passo diplomatico in più rivolgendosi direttamente a Najibullah » ricorda l’ex diplomatico afghano. La nuova versione andava bene e dopo sette mesi di dura galera venne a prendermi a Kabul il segretario generale della Farnesina, Bruno Bottai. Il presidente di Gladio, che sui muri del nostro paese era diventato Kossiga, con la K di Kissinger, non aveva esitato a rivolgersi ad un signore della guerra comunista, bollato dalla Nato, accettando le sue «correzioni» per farmi tornare a casa. A Cossiga l’Italia deve molto, ma chi scrive gli deve la libertà e probabilmente la vita. www.faustobiloslavo.eu |
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10 giugno 2008 | Emittente privata TCA | reportage
Gli occhi della guerra.... a Bolzano /2
Negli anni 80 lo portava in giro per Milano sulla sua 500, scrive Panorama. Adesso, da ministro della Difesa, Ignazio La Russa ha voluto visitare a Bolzano la mostra fotografica Gli occhi della guerra, dedicata alla sua memoria. Almerigo Grilz, triestino, ex dirigente missino, fu il primo giornalista italiano ucciso dopo la Seconda guerra mondiale, mentre filmava uno scontro fra ribelli e governativi in Mozambico nell’87. La mostra, organizzata dal 4° Reggimento alpini paracadutisti, espone anche i reportage di altri due giornalisti triestini: Gian Micalessin e Fausto Biloslavo.
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18 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
L'Islam nelle carceri
Sono circa 10mila i detenuti musulmani nelle carceri italiane. Soprattutto marocchini, tunisini algerini, ma non manca qualche afghano o iracheno. Nella stragrande maggioranza delinquenti comuni che si aggrappano alla fede per sopravvivere dietro le sbarre.
Ma il pericolo del radicalismo islamico è sempre in agguato.
Circa 80 detenuti musulmani con reati di terrorismo sono stati concentrati in quattro carceri: Macomer, Asti, Benevento e Rossano.
Queste immagini esclusive mostrano la preghiera verso la Mecca nella sezione di Alta sicurezza 2 del carcere sardo di Macomer. Dove sono isolati personaggi come il convertito francese Raphael Gendron arrestato a Bari nel 2008 e Adel Ben Mabrouk uno dei tre tunisini catturati in Afghanistan, internati a Guantanamo e mandati in Italia dalla Casa Bianca.
“Ci insultano per provocare lo scontro dandoci dei fascisti, razzisti, servi degli americani. Una volta hanno esultato urlando Allah o Akbar, quando dei soldati italiani sono morti in un attentato in Afghanistan” denunciano gli agenti della polizia penitenziaria.
Nel carcere penale di Padova sono un centinaio i detenuti comuni musulmani che seguono le regole islamiche guidati dall’Imam fai da te Enhaji Abderrahman
Fra i detenuti comuni non mancano storie drammatiche di guerra come quella di un giovane iracheno raccontata dall’educatrice del carcere Cinzia Sattin, che ha l’incubo di saltare in aria come la sua famiglia a causa di un attacco suicida.
L’amministrazione penitenziaria mette a disposizione degli spazi per la preghiera e fornisce il vitto halal, secondo le regole musulmane.
La fede nell’Islam serve a sopportare la detenzione. Molti condannano il terrorismo, ma c’è anche dell’altro....
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21 settembre 2012 | La Vita in Diretta | reportage
Islam in Italia e non solo. Preconcetti, paure e pericoli
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radio
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25 maggio 2010 | Spazio Radio - Radio 1 | intervento |
Italia
L'Islam nelle carceri italiane
In Italia su oltre 23mila detenuti stranieri, 9840 risultano musulmani, secondo i dati ufficiali. Almeno seimila, però, non si sono dichiarati. Il rapporto di 364 pagine, “La radicalizzazione jihadista nelle istituzioni penitenziarie europee”, realizzato dall’esperto di Islam nella carceri, Sergio Bianchi, ne indica 13mila.
In Italia ci sono circa 80 islamici dietro le sbarre per reati connessi al terrorismo. Dal 2009 li hanno concentrati in quattro istituti di pena: ad Asti, Macomer, Benevento e Rossano. Nel carcere di Opera, invece, sono arrivati Adel Ben Mabrouk, Nasri Riadh e Moez Abdel Qader Fezzani, ex prigionieri di Guantanamo. Chi li controlla ogni giorno racconta che parlano in italiano. La guerra santa in Afghanistan l’hanno abbracciata dopo aver vissuto come extracomunicatori nel nostro paese. Non si possono incontrare fra loro e vivono in celle singole. Pregano regolarmente con molta devozione e hanno mantenuto i barboni islamici.
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24 maggio 2010 | Radio Padania Libera | intervento |
Italia
Proselitismo islamico dietro le sbarre
“Penso che sia giusto se alcuni musulmani combattono la guerra santa contro gli americani in paesi che non sono la loro terra”. Dopo un lungo girarci attorno Kamel Adid sorprende un po’ tutti, quando sputa il rospo. La domanda riguardava i mujaheddin, i musulmani pronti a morire per Allah, contro l’invasore infedele. Tre soldati della guerra santa, arrivati un paio di mesi fa da Guantanamo, sono rinchiusi poco più in là, nel reparto di massima sicurezza del carcere di Opera, alle porte di Milano.
Adid è un giovane marocchino di 31 anni con barbetta islamica d’ordinanza e tunica color noce. Nel carcere modello di Opera fa l’imam dei 44 musulmani detenuti, che frequentano una grande sala adibita a moschea. Un predicatore fai da te, che di solito parla un linguaggio moderato e ti guarda con occhioni apparentemente timidi.
Deve scontare ancora due mesi di pena per un reato legato alla droga e da pochi giorni è stato trasferito in un altro istituto. “Quelli che si fanno saltare in aria subiscono il lavaggio del cervello – si affretta a spiegare l’autonominato imam – Noi abbiamo riscoperto la fede in carcere. Pregare ci da conforto, ci aiuta ad avere speranza”.
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