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Lettera dal fronte
10 febbraio 2011 - Esteri - Afghanistan - Panorama
Caro monsignore, noi ragazzi in guerra non meritiamo le sue parole
“Monsignore lei ha torto” è questo il senso della lettera dal fronte scritta dal tenente colonnello degli alpini, Federico Lunardi, che Panorama pubblica. Una risposta alle parole del vescovo di Padova, Antonio Mattiazzo, pronunciate dopo il rientro in patria della salma del giovane alpino, Matteo Miotto, ucciso da un cecchino in Afghanistan il 31 dicembre. “Andiamo piano però con l'esaltazione retorica, non facciamone degli eroi. Vanno lì con le armi, quelle non sono missioni di pace» aveva dichiarato il vescovo, che non ha presenziato ai funerali del caduto davanti a diecimila persone a Thiene, in provincia di Vicenza.
Lunardi è un medico di prima linea per 12 anni con i Ranger, gli alpini paracadutisti di Bolzano, veterano delle missioni all’estero in Bosnia e Afghanistan. Dallo scorso agosto presta servizio a base Lavaredo a Bakwa. Nella famigerata valle del Gulistan, dove è stato ucciso Miotto, ha prestato soccorso agli alpini sotto il fuoco dei talebani.
Fausto Biloslavo Caro Monignor Mattiazzo, gli echi delle sue parole sono giunti fino a qui, in Afghanistan, in una base piuttosto vicina all’avamposto ove il 31 dicembre un colpo d’arma da fuoco ha concluso l’esistenza di un soldato.
Non si può non convenire che il termine “eroe”sia, in questi tempi, troppo inflazionato. Essere su un mezzo nel momento in cui viene investito da una deflagrazione o venir colpito da un proiettile non sono, ipso facto, situazioni “eroiche”. Scontiamo il pegno di vivere in una società abituata alle frasi roboanti; la “normalità” non è più definita come tale e riceve aggettivazioni, in positivo o in negativo, sempre iperboliche.
Sulla vicenda di Matteo Miotto il discorso si complica perché è innegabile una gestione attiva della propria persona: è corso a rinforzare un posto di guardia mentre i colpi fischiavano, si alternava alla risposta del fuoco, ha guardato in faccia – se non il cecchino – la propria sorte. Da qui in poi ognuno può, con il medesimo rispetto, definire come crede la vicenda e il comportamento tenuto da questo giovane.
La sua frase Eccellenza, però, stride come un gesso su una lavagna. La definizione di “eroicità” viene negata proprio perchè Matteo aveva un’arma in mano. Volendo interpretare il non detto: se avesse compiuto un’altra scelta di vita l’atteggiamento poteva essere considerato eroico. Una scelta di vita da serie B a cui non può che conseguire una valutazione, post mortem, con la medesima qualifica.
Incidentalmente mi sembra di poter affermare che la realtà, per chi la osserva con occhio libero da preconcetti, sia diversa: il chirurgo incide ove c’è il pus o la neoplasia, non la parte sana. Lo scienziato indaga il non conosciuto, non il già noto. Il militare può andare inerme dove è tutto tranquillo, armato dove si spara.
Dalla nascita della poesia e della prosa (si pensi alle sublimi pagine di Omero e Virgilio) in poi il termine eroe è stato utilizzato per i soldati e gli uomini d’arme e, solo per estensione (direi quasi per deriva semantica) è servito, in seguito, per indicare chi, pur non essendo militare, aveva mantenuto un contegno in situazioni “difficili” dimostrando senso dell’onore, coraggio, determinazione.
Non credo però, Eccellenza, che quello quello suscitato dalla sue parole sia un problema nominalistico anche perché non è previsto che per diventare vescovo o militare sia necessario aver letto i classici; aiuterebbe, ma rimane solo un’opportunità.
Per onor di storia, poi, la scelta di un pastore d’anime di affidare momenti di celebrazione “forti” a qualche suddiacono si era già verificata nella diocesi patavina. L’allora vescovo Bordignon (che in gioventù aveva dimostrato un coraggio non comune andando a impartire l’unzione degli infermi a tutti i “martiri” bassanesi impiccati sui pali del telegrafo lungo il viale che da loro prese nome) quando si trattò di celebrare la liturgia esequiale di Mazzola e Girallucci (uccisi dalle Br il 17 giugno 1974 ndr) delegò; erano morti missini, fascisti, anche loro di serie B.

Ricordo questo perché comunque ricevetti il sacramento della confermazioni dalle mani del vescovo Bordignon che quindi mi fece “miles Christi” e miles sono rimasto consapevole di non poter invocare alcuna richiesta di perdono a lei Vescovo Mattiazzo non vivendo pentimento alcuno circa questa scelta.
La vita del soldato, quindi, scredita coloro che la compiono di fronte agli occhi di pastori che appaiono più attenti al momento sociale che viviamo rispetto a quanto affermato nelle Sacre Scritture. Nell’Antico testamento figure di non secondo piano hanno invocato l’aiuto di Dio in momenti di guerra (Giosué nell’assedio di Gerico) o nell’uso della spada (Giuditta prima di decollare Olofrene). Depurare da un linguaggio militare i salmi significherebbe soltanto ripetere il Gloria. Deus Sabaoth, Signore degli eserciti e si potrebbe continuare a lungo.
Nel Nuovo Testamento le parole di elogio più forti Gesù le pronuncia nei confronti di un Centurione (“Nessuno ha così tanta fede in Israele”) tanto che ancor oggi si ripete, durante la liturgia, il suo “Domine, non sum dignus …).
Come medico, oltre che militare, sono sempre stato affascinato dalla parabola del buon Samaritano. Quella dell’uomo che mentre scendeva da Gerusalemme a Gerico cadde nelle mani dei ladroni che lo bastonano.  Il sacerdote passa (praeterivit), il Levita va oltre (pertransiit) soltanto il samaritano lo vede e si commuove (videns eum misericordia motus est). E’una parabola che ha rivoluzionato il modo di intendere il rapporto tra medico e paziente; non più il duale di Ippocrate ispirato all’amicizia ma quello di prossimità. In altre parole: non bisogna prendersi cura soltanto di chi si ama ma di tutti coloro che si incontrano sul cammino.
Ai tempi di Gesù soltanto i leviti, i sadducei e i farisei potevano diventare sacerdoti. Non i samaritani. Altri tempi, credevo; mi sbagliavo.

Ten. Col. Federico LUNARDI

Con il rispetto che si deve ad un Pastore anche quando le Sue parole feriscono e non sanano l'anima.

Baqwa, 25 gennaio 2010




 

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