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Reportage
08 aprile 2012 - Album - Bosnia Erzegovina - Il Giornale
A Sarajevo la guerra etnica cova ancora sotto le ceneri
Rosse come il sangue. In fila come lapidi. Lun­ghe, sterminate, infini­te. Come i giorni del­l’assedio, della guerra, della pau­ra. 11541 sedie senza un’anima. Tante quante i morti. Le sedie vuo­te di Sarajevo. 650 basse, minusco­le. Come i corpi dei loro bambini Una sciabolata vermiglia tra la cit­tadella turca di Basharska e Mar­shala Tita. 11541 anime trascina­te via dal vento di follia che spazzò la Jugoslavia, scese su Sarajevo il 6 aprile 1992, congelò la città per tre anni. I sopravvissuti le guardano. Lydia ha i capelli grigi. Per lei i no­mi del tabellone non sono lettere. Sono volti nella memoria lacrime sulle gote. Per chi ha meno di dieci anni sono favole sussurrate da pa­pà, occhi spalancati su quella ros­sa distesa di tristezza. Per noi, estranei ritornati vent’anni dopo, sono la paura di quei giorni, l’an­goscia di una città dove non sape­vi mai se arrivavi al giorno dopo.
Inizia tutto una sera. L’Holiday Inn è ancora scintillio di luci, la guerra un fantasma alle porte. Alija Izetbegovic, leader dei bo­sgnacchi musulmani, Radovan Karadzic per i serbi e il croato Ma­te Boban sono tutti lì in smoking e farfallino. È l’ultima festa prima del referendum per l’indipenden­za della Bosnia Erzegovina, l’ulti­ma sera prima del grande balzo verso guerra e morte. Si concedo­no ai giornalisti, ma sono già nemi­ci. Senza più sguardi. Senza più pa­role. È l’inizio della fine e loro già interpretano lo scontro surreale, il trionfo dell’ideologia, dell’odio sulla ragione. La pentola a pressio­ne del socialismo targato Mare­sciallo Tito è già saltata. La storia ri­scr­itta nel nome dello scontro etni­co bussa alle porte, diventa spieta­to folklore. Ha il volto dei miliziani croati incontrati quand’è già guer­ra alle porte della città. Hanno chiome scolpite ad U nel nome dei progenitori Ustascia di Ante Pavelic, alleato del Terzo Reich. Vive nell’immagine di un anziano miliziano serbo con in pugno un moschetto d’altri tempi e in testa la bustina dei Karadjordjevic, i monarchi jugoslavi. Per lui la guer­ra è quella dei miliziani cetnici fe­deli alla monarchia. E riemergo­no - in quei giorni cupi - anche i simboli dei reparti islamici fedeli, 40 anni prima, al terzo Reich. Il ri­torno al passato, il salto nella guer­ra si consuma con il rogo della bi­blioteca centrata dalle bombe ser­be, cancellata con i suoi libri. Oggi vent’anni dopo è l’ultima rovina da ricostruire. Tutt’intorno la cit­tà imbelletta le sue cicatrici. Dalle rovine del quotidiano
Oslobo­denje , simbolo dell’assedio è sor­to l’hotel Plaza. Le torri gemelle del centro tiro a segno per cecchi­ni e granate, sono di nuovo scintil­lanti. Il tunnel della vita, scavato sotto l’aeroporto per evacuare feri­ti, portare cibo e munizioni è nei giorni d’assedio un angusto cuni­colo di 860 metri squassato dal rimbombo delle esplosioni tra le rovine del quartiere di Hrasniza. Oggi è un museo, dove si paga an­che per posteggiare.
Solo la biblioteca attende, nuda come uno scheletro vuoto. Rina­scerà, ma non ha più i suoi libri e diventerà municipio. Per ora re­sta scheletro vuoto. Come le ani­me sopravvissute alla guerra, ma bruciate dal suo fuoco. Come Ja­na. È maggio 1992. Ivo Standeker collega sloveno e Jana Schneider
fotografa americana sono già nel­la città assediata. Al telefono Ivo spiega come passare i posti di bloc­co. «Portate candele qui non c’è lu­ce » sussurra. Il giorno dopo è già cadavere, dilaniato da una grana­ta di carro armato. Il suo corpo è al­l’ospedale serbo di Ilidja. In cor­sia c’è Jana viva, ma imbottita di schegge. La carichiamo in macchi­na, la riportiamo a Sarajevo. Il fuo­co dei cecchini è ticchettio legge­ro sull’asfalto. Terrore costante nell’abitacolo.«A 120 a 120-strilla lei- oltre questa velocità non ti col­piscono ».La lasciamo all’ospeda­le, ma la nebbia di quei giorni non lascia più la sua mente.
Non ci sono alberghi. Non ci so­no rifugi. Il nostro primo letto a Sa­ra­jevo è il pavimento di un appar­tamento al quinto piano di un pa­lazzone socialista del quartiere di Bistrik. Dejan Bogigevic, giornali­sta di Radio Sarajevo,
ogni notte si alza, striscia nel buio, tenta dispe­rato di chiamare la moglie Lala e le figlie Idissa e Rajna spedite in Au­stria all’inizio della guerra. A di­strarlo sono solo le bombe. Quan­do le schegge piovono sulla faccia­ta, abbandona la cornetta ci spin­ge in cantina. Una mattina un mor­taio centra un balcone. Davanti ai nostri occhi sfila un troncone in­sanguinato caricato in un bagagli­aio davanti agli occhi di donne senza più lacrime.
La sopravvivenza è un’arte. Le case di Dejan e delle altre anime morte di Sarajevo sono veri rifugi. Acqua nel bagnetto di plastica del­le bambine. Acqua nelle bottiglie. Acqua in taniche e catini. Per tro­varla si scende al fiume, ma si ri­schia di pagarla con la vita perché i cecchini ti aspettano al varco co­me avvoltoi.
Le stanze esposte verso le mon­tagne, sono la «zona della morte». Da lì scendono papà Arif Bunguri e il figlio Miky di 7 anni. Una grana­ta li ha trasformati in maschere di sangue e sofferenza. Nel pronto soccorso del quartiere il dottor Alja Celo affonda le pinze, estrae le schegge, mentre Miky s’ingoz­za di dolore e lacrime. Noi filmia­mo. Oggi, 20 anni dopo, Miky ha 27 anni. Ci guarda stupito, frastor­nato mentre le immagini di allora risvegliano il dolore addormenta­to. Guarda il padre. Loro si sono salvati, ma 11541 no.
Fra questi ci sono anche dei ser­bi
che vivevano a Sarajevo in 170mila. Venti anni dopo sono so­lo 15mila, soprattutto anziani che non sanno dove andare. Branko Mandic faceva l’interprete per i giornalisti sul fronte serbo. Oggi è assistente del ministro degli Este­ri dopo aver servito come amba­s­ciatore della nuova Bosnia in Un­gheria. A Sarajevo, dove viveva pri­ma della guerra, ci va solo per lavo­rare e alla sera torna a Pale l’ex quartier generale di Radovan Ka­radzic e Ratko Mladic, accusati di genocidio, sulle colline che sovra­stano la capitale. Per i serbi la lun­ga scia di sedie rosse che ricorda l’assedio è una «provocazione». Mandic non ha dubbi: «La gente ha perso tutto e guadagnato poco con la guerra, ma se la comunità internazionale ci lascia andare avanti da soli si ricomincia a spara­re il giorno dopo».
[continua]

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07 settembre 2020 | Quarta Repubblica | reportage
Con i migranti illegali della rotta balcanica
I migranti pachistani della rotta balcanica attraversano di corsa il confine fra Bosnia e Croazia. Dal tappo bosniaco 8mila migranti vogliono partire verso l’Italia. E oltre 4mila sono arrivati in Friuli-Venezia Giulia dall’inizio dell’anno. I migranti chiamano the game, il gioco, il tragitto clandestino fino all’Italia, ma c’è chi prova dieci o venti volte prima di riuscire a passare. I croati usano droni, camere termiche e non trattano i migranti con i guanti, che vivono in condizioni estreme. Nel cantone di Bihac la situazione è esplosiva. La popolazione vuole la chiusura dei campi di accoglienza. A Bihac i cooperanti italiani aiutano i migranti. Centinaia di migranti sono intrappolati nella terra di nessuno fra la zona serba e musulmana della Bosnia. Nessuno li vuole e li spinge da una parte e dall’altra.Così scoppiano scontri con i migranti che gridano Allah o akbar, dio è grande, sfidando la polizia. Per arrivare in Italia usano una app che indica la posizione anche senza internet.In molti vivono in edifici fatiscenti. Nei campi ufficiali non mancano le rivolte. E se verranno chiusi sarà ancora peggio. Questi marocchini appena respinti dai croati ci proveranno ancora come gli altri 8mila migranti.

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