image
Reportage
18 aprile 2012 - Esteri - Bosnia Erzegovina - Oggi
Sarajevo 20 anni dopo
Sarejevo, aprile - “Welcome to hell”, benvenuti all’inferno, era la scritta che ti accoglieva a Sarajevo nel 1992 all’inizio dell’assedio serbo, che durerà più di tre anni e costerà alla capitale bosniaca 11 mila morti. Le mura delle case dopo l’aeroporto, sbrecciate dalle raffiche di mitragliatrici pesanti, erano solo l’antipasto di una città fantasma. Se avevi fortuna ti infilavi su un blindato bianco dell’Onu o in caso contrario a bordo di uno degli ultimi taxi sforacchiato dai colpi per sfrecciare lungo Marsala Tita. La strada principale di Sarajevo soprannominata “il viale dei cecchini” perché facevi a zig zag fra i proiettili. L’Holiday Inn, albergo maestoso e giallognolo, era la meta finale, il bivacco dei giornalisti durante la guerra. Peccato che la cannonata di un carro armato serbo l’avesse trapassato da parte a parte lasciando un buco in mezzo. 
Gli anziani non hanno dimenticato 
Il 5 aprile scorso gli inviati che hanno raccontato l’assedio si sono ritrovati nello stesso albergo rinato come nuovo 20 anni dopo la guerra in Bosnia ed i suoi 100 mila morti. Il viale dei cecchini è uno dei pochi di Sarajevo che non ha cambiato nome, ancora dedicato al maresciallo Tito fondatore della Jugoslavia. I tram sono gli stessi del 1992, dipinti di giallo e oggi anche di rosso, ma non si fermano più in mezzo alla strada per le granate che ogni giorno piombavano su Sarajevo. Il tragitto fino all’ex biblioteca nazionale è disseminato di bar festosi zeppi di gente. Sembra di essere a Milano e alla sera parte la movida, come a Brera. Sul volto dei trentenni, che durante la guerra erano bambini, è tornata la spensieratezza. Le rughe dei più anziani nascondono qualcosa di triste, di chi non dimentica. La discesa nell’incubo di Sarajevo ha un simbolo: l’antica biblioteca in fiamme colpita dalle granate per mandare in fumo oltre un milione di libri e manoscritti, un’intera cultura. Dopo 20 anni la stanno ancora restaurando. Nella città vecchia, a Bascarsija, la moschea di Gazy Husrev Bey è intatta, le botteghe di artigiani sono aperte e prese d’assalto dai turisti. Per 8 euro mangi civapcici, i salsicciotti di carne tipici dei Balcani, bevi una pivo, la birra del luogo e ti gusti il caffè alla turca. Durante l’assedio rischiavi la pelle per un pezzo di pane e pagavi un occhio della testa qualcosa da mettere sotto i denti nell’ultimo ristorante sopravvissuto, per qualche tempo, perché si trovava sottoterra.
I ragazzi sono incollati all’iphone
Oggi ci sono ancora ragazze che girano con il velo, ma tante altre amano la vita all’occidentale e sono incollate all’iPhone. Il richiamo alla preghiera del muezzin si mescola al rito della Pasqua nella cattedrale cattolica. In un Paese ancora diviso, con il 30% di disoccupazione, i mendicanti chiedono la carità nel centro di Sarajevo, ma i giovani ostentano l’iPad. I vecchi bosgnacchi, i bosniaci musulmani, continuano a fumare sempre le solite sigarette Drina. Il Parlamento annerito dalla granate è rinato e i segni della guerra ancora visibili sono pochi e nascosti, a parte il grande cimitero dei “martiri” con tombe musulmane tutte uguali. Il tunnel sotto l’aeroporto, l’unica via giugulare di una capitale stritolata, è diventato un museo dove le scolaresche vanno in gita. Un grande disegno mostra le linee serbe dell’assedio che lasciavano libero solo una fetta di terra a Butmir. Per raggiungere Sarajevo si scendeva a piedi fra gli alberi fitti del monte Igman pregando di non essere visti. Il tunnel era un budello di 860 metri, tipo vecchia miniera e per percorrerlo dovevi piegarti lasciando passare armi e feriti. La pioggia di granate in superficie faceva tremare tutto. Per i giornalisti che riuscivano a infilarsi nella galleria spesso c’era una brutta sorpresa all’arrivo alle linee bosniache. Senza permesso scritto ti facevano tornare indietro, sotto il tiro dei mortai. Vent’anni dopo, dei serbi, che erano maggioranza nel grande quartiere di Grbavica non c’è quasi traccia. La Bosnia Erzegovina è una federazione fondata su due entità: quella serba, che vuole unirsi a Belgrado e la musulmana con i cantoni croati, che guardano a Zagabria. Un debole governo centrale non riesce a risolvere i problemi del Paese che sogna l’Europa, ma ha ancora un Alto rappresentante internazionale a tutela di una Bosnia una e trina. Un ragazzo di Dobrinja, quartiere in prima linea durante la guerra, ammette: «Anche se non si spara più nessuno può dormire sonni tranquilli. L’odio è rimasto».

Fausto Biloslavo

video
07 settembre 2020 | Quarta Repubblica | reportage
Con i migranti illegali della rotta balcanica
I migranti pachistani della rotta balcanica attraversano di corsa il confine fra Bosnia e Croazia. Dal tappo bosniaco 8mila migranti vogliono partire verso l’Italia. E oltre 4mila sono arrivati in Friuli-Venezia Giulia dall’inizio dell’anno. I migranti chiamano the game, il gioco, il tragitto clandestino fino all’Italia, ma c’è chi prova dieci o venti volte prima di riuscire a passare. I croati usano droni, camere termiche e non trattano i migranti con i guanti, che vivono in condizioni estreme. Nel cantone di Bihac la situazione è esplosiva. La popolazione vuole la chiusura dei campi di accoglienza. A Bihac i cooperanti italiani aiutano i migranti. Centinaia di migranti sono intrappolati nella terra di nessuno fra la zona serba e musulmana della Bosnia. Nessuno li vuole e li spinge da una parte e dall’altra.Così scoppiano scontri con i migranti che gridano Allah o akbar, dio è grande, sfidando la polizia. Per arrivare in Italia usano una app che indica la posizione anche senza internet.In molti vivono in edifici fatiscenti. Nei campi ufficiali non mancano le rivolte. E se verranno chiusi sarà ancora peggio. Questi marocchini appena respinti dai croati ci proveranno ancora come gli altri 8mila migranti.

play
[altri video]