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Intervista
02 giugno 2012 - Cronache - Italia - Il Giornale
"Ecco perché l'esercito può combattere gli sciacalli"
Il prefetto di Modena è pronto a mobilitare i sol­dati per fermare gli sciacalli del terremoto. 'Stia­mo valutando un possibile intervento dell'eserci­to. So che alcuni comuni ne hanno fatto richiesta. Se sarà possibile e necessario senz'altro lo richiede­rò' ha dichiarato Benedetto Basile, rappresentan­te del governo nel capoluogo emiliano. La prefettu­ra ha rinforzato il presidio delle forze di polizia per un totale di 395 agenti. Giovedì gli sciacalli si sono spacciati per la Protezione civile invitando i terre­motati a lasciare le case con l'obiettivo di depredar­le. L'ex generale degli alpini, Carlo Cabigiosu, spie­ga come potrebbero venir utilizzati i soldati per la sicurezza dei terremotati.
Contro gli sciacalli va mobilitato l'esercito?
«In caso di carenza di personale delle forze dell' ordine il controllo del territorio può venir svolto da­gli uomini dell'esercito. Nelle missioni all'estero controlliamo il territorio, ovviamente in una situa­zi­one più vicina alla guerriglia piuttosto che al con­trasto
della criminalità, organizzata o meno, ma sempre di controllo del territorio si tratta».
Questo significa che i militari sarebbero pron­ti?

«Sì ed in ogni caso stiamo parlando di situazioni che si risolvono con pattugliamenti delle città e pa­esi disastrati. Oppure utilizzando qualche sistema di sorveglianza particolare di cui è dotato l'eserci­to ».
A cosa si riferisce?
«Abbiamo dei radar terrestri che da una certa di­stanza potrebbero individuare i malintenzionati che si avvicinano alle aree abbandonate dagli abi­tanti.
Poi buona parte delle nostre unità di fucilieri utilizza apparati per la visione notturna. In pratica i soldati 'vedono' nel buio, mentre non tutte le for­ze dell'ordine hanno in dotazione questo equipag­giamento ».
Per sorvegliare le aree terremotate servireb­bero i velivoli senza pilota utilizzati in Afghani­stan?
«La legislazione per l'impiego di questi mezzi sul territorio nazionale è molto restrittiva rispetto al teatro operativo all'estero. Potrebbero essere uti­li, ma ci sono gli elicotteri che anche di notte posso­no controllare dal cielo i casolari abbandonati faci­le preda dei delinquenti».
I soldati possono sparare a vista sugli sciacal­li?

«No. Probabilmente verrebbero realizzate delle pattuglie miste con un rappresentante delle forze dell'ordine, che come pubblico ufficiale procede­rebbe all'arresto. Più o meno simile a quello che è accaduto con l'operazione Vespri siciliani contro la mafia, che prevedeva perquisizioni, posti di bloc­co ed identificazione di sospetti».
Il direttore de Il Giornale ha scritto che sareb­be meglio ritirarci dall'Afghanistan e mobilita­re i nostri soldati in patria per tragedie come il terremoto. Cosa ne pensa?
«Le decisioni sull'Afghanistan non vanno prese isolatamente o nel momento in cui c'è l'esigenza di aiutare i terremotati. Piuttosto dobbiamo chieder­ci­se l'entità dello sforzo in Afghanistan è commisu­rato a quelle che sono le effettive necessità del no­stro paese a livello internazionale, oppure se po­tremmo avere la stessa rilevanza con un impegno minore».
Tenendo conto del rapporto costi e benefici va­le la pena mobilitare l'esercito per un terremo­to?
«L'esercito costa quanto i carabinieri che servi­rebbero da rinforzo e verrebbero trasferiti da altre zone. In passato è stato utilizzato in maniera mas­siccia con i soldati di leva, che costavano molto me­no rispetto ai professionisti di oggi. Il problema è che in questo momento sono state individuate al­tre esigenze di impiego dei militari, come la prote­zione di obiettivi a rischio terrorismo in tutt'Italia ».
[continua]

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29 dicembre 2010 | | reportage
Gli occhi della guerra a Trieste
Dopo aver portato la mostra su 25 anni di reportage di guerra in tutta Italia, finalmente il 29 dicembre è stata inaugurata a Trieste, presso la sala espositiva della Parrocchia di Santa Maria Maggiore, via del Collegio 6. Gli occhi della guerra sono dedicati ad Almerigo Grilz e a tutti i giornalisti caduti sul fronte dell'informazione. La mostra rimarrà aperta al pubblico dal 10 al 20 gennaio. L'evento è stato organizzato dal Circolo universitario Hobbit con la sponsorizzazione della Regione.

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07 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Parla il sopravvissuto al virus
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il sopravvissuto sta sbucciando un’arancia seduto sul letto di ospedale, come se non fosse rispuntato da poco dall’anticamera dell’inferno. Maglietta grigia, speranza dipinta negli occhi, Giovanni Ziliani è stato dimesso mercoledì, per tornare a casa. Quarantadue anni, atleta e istruttore di arti marziali ai bambini, il 10 marzo ha iniziato a stare male nella sua città, Cremona. Cinque giorni dopo è finito in terapia intensiva. Dalla Lombardia l’hanno trasferito a Trieste, dove un tubo in gola gli pompava aria nei polmoni devastati dall’infezione. Dopo 17 giorni di calvario è tornato a vivere, non più contagioso. Cosa ricorda di questa discesa all’inferno? “Non volevo dormire perchè avevo paura di smettere di respirare. Ricordo il tubo in gola, come dovevo convivere con il dolore, gli sforzi di vomito ogni volta che cercavo di deglutire. E gli occhi arrossati che bruciavano. Quando mi sono svegliato, ancora intubato, ero spaventato, disorientato. La sensazione è di impotenza sul proprio corpo. Ti rendi conto che dipendi da fili, tubi, macchine. E che la cosa più naturale del mondo, respirare, non lo è più”. Dove ha trovato la forza? “Mi sono aggrappato alla famiglia, ai valori veri. Al ricordo di mia moglie, in cinta da otto mesi e di nostra figlia di 7 anni. Ti aggrappi a quello che conta nella vita. E poi c’erano gli angeli in tuta bianca che mi hanno fatto rinascere”. Gli operatori sanitari dell’ospedale? “Sì, medici ed infermieri che ti aiutano e confortano in ogni modo. Volevo comunicare, ma non ci riuscivo perchè avevo un tubo in gola. Hanno provato a farmi scrivere, ma ero talmente debole che non ero in grado. Allora mi hanno portato un foglio plastificato con l’alfabeto e digitavo le lettere per comporre le parole”. Il momento che non dimenticherà mai? “Quando mi hanno estubato. E’ stata una festa. E quando ero in grado di parlare la prima cosa che hanno fatto è una chiamata in viva voce con mia moglie. Dopo tanti giorni fra la vita e la morte è stato un momento bellissimo”. Come ha recuperato le forze? “Sono stato svezzato come si fa con i vitellini. Dopo tanto tempo con il sondino per l’alimentazione mi hanno somministrato in bocca del tè caldo con una piccola siringa. Non ero solo un paziente che dovevano curare. Mi sono sentito accudito”. Come è stato infettato? “Abbiamo preso il virus da papà, che purtroppo non ce l’ha fatta. Mio fratello è intubato a Varese non ancora fuori pericolo”. E la sua famiglia? “Moglie e figlia di 7 anni per fortuna sono negative. La mia signora è in attesa di Gabriele che nascerà fra un mese. Ed io sono rinato a Trieste”. Ha pensato di non farcela? “Ero stanco di stare male con la febbre sempre a 39,6. Speravo di addormentarmi in terapia intensiva e di risvegliarmi guarito. Non è andata proprio in questo modo, ma è finita così: una vittoria per tutti”.

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04 luglio 2012 | Telefriuli | reportage
Conosciamoci
Giornalismo di guerra e altro.

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06 settembre 2018 | Radio immaginaria | intervento
Italia
Teen Parade
Gli adolescenti mi intervistano sulla passione per i reportage di guerra

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24 maggio 2010 | Radio Padania Libera | intervento
Italia
Proselitismo islamico dietro le sbarre
“Penso che sia giusto se alcuni musulmani combattono la guerra santa contro gli americani in paesi che non sono la loro terra”. Dopo un lungo girarci attorno Kamel Adid sorprende un po’ tutti, quando sputa il rospo. La domanda riguardava i mujaheddin, i musulmani pronti a morire per Allah, contro l’invasore infedele. Tre soldati della guerra santa, arrivati un paio di mesi fa da Guantanamo, sono rinchiusi poco più in là, nel reparto di massima sicurezza del carcere di Opera, alle porte di Milano.
Adid è un giovane marocchino di 31 anni con barbetta islamica d’ordinanza e tunica color noce. Nel carcere modello di Opera fa l’imam dei 44 musulmani detenuti, che frequentano una grande sala adibita a moschea. Un predicatore fai da te, che di solito parla un linguaggio moderato e ti guarda con occhioni apparentemente timidi.
Deve scontare ancora due mesi di pena per un reato legato alla droga e da pochi giorni è stato trasferito in un altro istituto. “Quelli che si fanno saltare in aria subiscono il lavaggio del cervello – si affretta a spiegare l’autonominato imam – Noi abbiamo riscoperto la fede in carcere. Pregare ci da conforto, ci aiuta ad avere speranza”.

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25 maggio 2010 | Spazio Radio - Radio 1 | intervento
Italia
L'Islam nelle carceri italiane
In Italia su oltre 23mila detenuti stranieri, 9840 risultano musulmani, secondo i dati ufficiali. Almeno seimila, però, non si sono dichiarati. Il rapporto di 364 pagine, “La radicalizzazione jihadista nelle istituzioni penitenziarie europee”, realizzato dall’esperto di Islam nella carceri, Sergio Bianchi, ne indica 13mila.
In Italia ci sono circa 80 islamici dietro le sbarre per reati connessi al terrorismo. Dal 2009 li hanno concentrati in quattro istituti di pena: ad Asti, Macomer, Benevento e Rossano. Nel carcere di Opera, invece, sono arrivati Adel Ben Mabrouk, Nasri Riadh e Moez Abdel Qader Fezzani, ex prigionieri di Guantanamo. Chi li controlla ogni giorno racconta che parlano in italiano. La guerra santa in Afghanistan l’hanno abbracciata dopo aver vissuto come extracomunicatori nel nostro paese. Non si possono incontrare fra loro e vivono in celle singole. Pregano regolarmente con molta devozione e hanno mantenuto i barboni islamici.

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20 giugno 2017 | WDR | intervento
Italia
Più cittadini italiani con lo ius soli
Estendere la cittadinanza italiana ai bambini figli di stranieri? È la proposta di legge in discussione in Senato in questi giorni. Abbiamo sentito favorevoli e contrari.

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03 gennaio 2011 | Radio Capodistria - Storie di bipedi | intervento
Italia
Gli occhi della guerra
Le orbite rossastre di un bambino soldato, lo sguardo terrorizzato di un prigioniero che attende il plotone di esecuzione, l’ultimo rigagnolo di vita nelle pupille di un ferito sono gli occhi della guerra incrociati in tanti reportage di prima linea. Dopo l’esposizione in una dozzina di città la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” è stata inaugurata a Trieste. Una collezione di immagini forti scattate in 25 anni di reportage da Fausto Biloslavo, Gian Micalessin e Almerigo Grilz, ucciso il 19 maggio 1987 in Mozambico, mentre filmava uno scontro a fuoco. La mostra, che rimarrà aperta al pubblico fino al 20 gennaio, è organizzata dall’associazione Hobbit e finanziata dalla regione Friuli-Venezia Giulia. L’esposizione è dedicata a Grilz e a tutti i giornalisti caduti in prima linea. Il prossimo marzo verrà ospitata a Bruxelles presso il parlamento europeo.Della storia dell'Albatross press agency,della mostra e del libro fotografico Gli occhi della guerra ne parlo a Radio Capodistria con Andro Merkù.

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