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Reportage
04 dicembre 2014 - Prima - Iraq - Corriere del Ticino
Ecco chi si oppone alla furia del Califfo

BAGHDAD - Il generale porta con orgoglio il basco amaranto da paracadutista. Si inerpica affondando nella terra della trincea improvvisata con il bazooka in spalla. Poi prende la mira e lancia un razzo contro le postazioni del Califfato alla periferia di Tikrit, dove è nato il defunto dittatore iracheno, Saddam Hussein.

Hamid Karim comanda la 5° brigata speciale dell’esercito iracheno, che assieme alla bandiera nazionale sventola quella dell’imam Hussein, il martire degli sciiti.

I suoi uomini urlano Allah o Akbar (Dio è grande) e si scatenano in una caotica sparatoria contro il nemico. Un ufficiale ciccione alza sopra la testa la mitragliatrice pesante vomitando una valanga di fuoco. I più esperti sparano un paio di raffiche e si mettono al riparo timorosi di venire inquadrati dai cecchini. Un soldato con l’elmetto dipinto di teschi bianchi seganla che è tutto ok alzando il pollice. A 500 metri, oltre la terra di nessuno che è stata ribattezzata “la valle della morte”, si annidano i seguaci del Califfo. Le postazioni sono ben nascoste fra degli edifici color marrone scheggiati dai colpi e anneriti dalle cannonate. 

La furia della battaglia per Tikrit non ha risparmiato una sola casa trasformando la periferia in una città fantasma. Un passeggino abbandonato in mezzo alla strada ed una bicicletta da bambino piegata in due fanno capire il dramma dei civili fuggiti in massa. I combattimenti hanno distrutto pure il mausoleo di Saddam trasformato in un cumulo di macerie. Dopo l’impiccagione dell’ex dittatore nel 2006 il corpo era stato sepolto a Tikrit. In seguito la sua tribù l’ha portato via, in segreto, temendo il peggio. Oggi al posto della tomba c’è il cratere di una bomba. “Ed i sunniti, che gli sono rimasti fedeli, combattono al fianco del Califfo” denuncia il generale Karim, che in poche settimane spera di conquistare Tikrit.

Il primo passo verso l’assalto a Mosul, la “capitale” iracheno dello Stato Islamico, dopo la conquista di un terzo dell’Iraq con la clamorosa avanzata della scorsa estate. Gli americani puntano a rifondare tre divisioni dell’esercito iracheno, che si è sciolto come neve al sole di fronte al Califfato. Un totale di 20mila uomini, che assieme alle altre cinque divisioni rimanenti lanceranno una grande controffensiva in primavera. Il presidente americano Barack Obama, nona  caso, ha raddoppiato il numero di consiglieri ed istruttori militari in Iraq portandoli a 3mila e chiedendo la Congresso 5 miliardi di dollari per le operazioni contro lo Stato islamico.

Sul terreno non bastano i raid aerei, appena 5 al giorno compresi obiettivi in Siria, rispetto ai 50 che hanno abbattuto il regime del colonnello Gheddafi in Libia. Tutto il fronte a ridosso di Baghdad è in mano alle milizie sciite mobilitate dal richiamo alle armi del grane ayatollah Alì Al Sistani. Un milione di volontari, che sono stati inquadrati in minima parte per mancanza di armi e addestramento. La “Lega di giusti” è la milizia più forte collegata al generale Qassem Suleimani, il comandante dei Pasdaran iraniani. Molti dei suoi uomini sono veterani della guerra in Siria contro i ribelli anti Assad. I “battaglioni Hezbollah” sono guidati da Abu MAhdi al Muhandis, l’ “ingegnere” inserito dagli usa nella lista dei terroristi ricercati. Altre milizie come i “reparti del giorno promesso”, le “brigate della pace” ed il “corpo Badr” rispondono alle varie anime politiche sciite in Iraq.

Almeno 10mila miliziani coordinati dal generale iraniano Suleimani hanno riconquistai Jurf al Shakar, una roccaforte del Califfato sulla strada per Falluja. Delle palme falciate dall’artiglieria restano solo tronconi anneriti. Un cimitero di blindati sui lati della strada principale dimostra la furia della battaglia. “Stavamo avanzando quando il cecchino ha cominciato a sparare. Alì, un amico fraterno, correva al mio fianco. E’ caduto colpito in pieno petto diventando un martire” racconta Mohammed, un ragazzino i  mimetica e cappellino da baseball. Sul fronte della guerra al Califfo in Iraq è diventato veterano in fretta. I seguaci sunniti dello Stato islamico hanno addirittura usato un affluente dell’Eufrate inondando il deserto attorno a Jurf al Sahakar per far impantanare i blindati degli odiati sciiti. Prima di ritirarsi i suoi miliziani hanno fatto saltare in aria un grande ponte che un tempo era dedicato al dittatore iracheno Saddam Hussein. Di fronte al pachiderma di cemento spezzato in due le forze irachene tengono una postazione eretta con i sacchetti di sabbia. Fucile da cecchino a tracolla, il sergente Haidar ha le idee chiare: “Aspettiamo solo l’ordine per avanzare e spazzare via i terroristi dall’Iraq. Se resistono li uccidiamo tutti”.

Non sarà così facile, come si stanno rendendo conto le truppe curde sul fronte nord, che per un soffio hanno fermato l’avanzata del Califfo. Ad una ventina di chilometri da Mosul le postazioni dei peshmerga sono incuneate in campo aperto e semi circondate dai villaggi controllati dallo Stato islamico.  Da una trincea rafforzata con mattoni di cemento sparano raffiche di kalashnikov e mitragliatrice contro il nemico, che non risponde. I cecchini ed i mortai annidati in una specie di fabbrica abbandonata sono invisibili, ma un drone che ci ronza sopra la testa è alla ricerca di obiettivi jihadisti da colpire.

Enormi fossati, come nelle guerre medievali, difendono le trincee dei peshmerga. “I terroristi kamikaze si lanciano con i blindati imbottiti di esplosivo verso le nostre linee. Anche se li centriamo saltano per aria grazie ad un radiocomando attivato a distanza. L’unioc sistema è farli cadere prima nel fossato” spiega il generale curdo Dedawan Bharsheed. 

Più ad ovest attorno al villaggio cristiano di Telleskef, liberato dai curdi, combattono i giovani di un’unica famiglia accorsi a difendere la “patria” da Olanda, Germania e Inghilterra. Uno dei volontari, che adesso è in licenza ad Erbil, la capitale del Kurdistan viene dal Canton Ticino. Ako, in divisa cachi, è un peshmerga “italiano”, che per dieci anni ha lavorato come muratore nel sud, vicino a Foggia.

Al fianco dei curdi stano sorgendo le milizie cristiane. Una dozzina di volontari pattuglia il villaggio abbandonato di Bakufa e presidia la chiesa di San Giorgio. I ragazzoni in mimetica e armi in pugno baciano la croce sul portone di ferro dell’ingresso secondario, sotto il campanile. “Abbiamo salvato le croci e gli antichi manoscritti in aramaico, la lingua di Cristo, vandalizzati e gettati nella polvere dai terroristi” dichiara orgoglioso un giovane volontario mostrando i Vangeli sopravissuti. La mini milizia del “sacrificio” è nata in agosto dopo la cacciata dei cristiani dalla piana di Ninive. I curdi non li lasciano ancora combattere in prima linea, ma i volontari ono decisi a riconquistare i villaggi cristiani.  

Il generale dei peshmerga, Abdul Rahman Kawriyni, veterano delle guerre contro i turchi e Saddam Hussein mostra le foto dell’ultima battaglia vicino al confine con la Siria. Sui telefonini i cadaveri dilaniati dai colpi dei combattenti jihadisti sono dei trofei. “Dai lineamenti non sembravano arabi - spiega l’ufficiale - Non avevano documenti, ma in tasca abbiamo trovato banconote in euro e telefonini con il menù in inglese. Venivano dall’Europa: il pericolo lo avete già in casa. Stiamo combattendo anche per voi”.

 

TELLESKEF (nord dell’Iraq) - La croce sopra la porta di casa spalancata è ancora intatta, ma il cancello d’ingresso l’hanno tirato giù a calci. Non è l’unica abitazione saccheggiata nella periferia di Telleskef, che ospitava 1500 famiglie cristiane a trenta chilometri da Mosul, diventata la “capitale” irachena del Califfato. All’interno una razzia sistematica ha buttato tutto all’aria. L’immagine di Cristo, che resiste su una parete sovrasta il caos dell’armadio svuotato alla rinfusa per cercare qualcosa di valore. I proprietari sono fuggiti così in fretta da abbandonare le ciabatte sulle scale. In un’altra abitazione hanno spezzato in due un crocefisso. Nella chiesa di San Giorgio, in un villaggio vicino, libri preziosi come l’antico Testamento scritti a mano sono finiti nella polvere e stracciati in segno di disprezzo.

Telleskef e dintorni sono stati occupati per un mese dallo Stato islamico, che ha portato via almeno 3mila capi di bestiame e saccheggiato qualche casa. Poi sono arrivati i combattenti curdi a “liberare” il villaggio, ma molti denunciano che è pure peggio. “Quelli del Califfo mi hanno portato via il televisore al plasma, ma i peshmerga hanno rubato sette volte in casa mia. Se il Califfo ha svuotato poche case, i curdi le hanno saccheggiate tutte” denuncia Rustam Shamoon Sheya. L’ingegnere cristiano viveva in una bella villetta a Telleskef. 

I peshmerga parlano di mele merce ed il generale curdo, Sarhad Betwata, che ci accompagna fra le case abbandonate ha ricevuto dall’alto, ordini draconiani. “Il presidente del Kurdistan, Massoud Barzani, vuole che difendiamo i cristiani come se fossero le nostre famiglie” sostiene l’alto ufficiale. Nelle strade desolate del villaggio fantasma si incontra qualche sfollato che recupera sedie, tavoli ed un frigorifero con un’immaginetta di Cristo scampati alle razzie.

Le porcherie nei confronti dei cristiani non si fermano ai saccheggi. Molti dei 120mila rifugiati in Kurdistan vogliono solo emigrare, ma per farlo hanno bisogno di soldi. Agenzie immobiliari senza scrupoli di Erbil comprano le loro case abbandonate nella piana di Ninive a prezzi stracciati, 3 o 4 volte inferiori al valore reale. “Sulla pelle dei cristiani si approfittano del loro dramma - denuncia  padre Zoher Naser nella capitale del Kurdistan - Una casa con il terreno di 200mila euro viene ceduta a 50mila”. Non è chiaro chi si celi dietro le agenzie senza scrupoli, ma il religioso è convinto che sia un “disegno per cambiare la mappa demografica della piana di Ninive facendo sparire la presenza cristiana”.

Anche sugli aiuti umanitari c’è chi si approfitta. Ambulanze e carichi di medicinali vengono fermati al confine turco o all’aeroporto di Erbil. Pur essendo destinati ai profughi cristiani le autorità curde vogliono gestire gli aiuti secondo i loro interessi. “Spesso non arrivano ai cristiani o le medicine vengono vendute al  mercato nero” rincara la dose padre Naser.

Nel giardino della chiesa di Sant’Elia ad Ainkawa, il sobborgo cristiano di Erbil, c’è ancora una tendopoli che ospita 522 anime, nonostante l'arrivo dell’inverno. Dei giovani con la croce al collo parlano in aramaico, l’antica lingua di Cristo. Una piccola statua della Madonna in mezzo alle tende sembra quasi sorvegliare i rifugiati.

“Europei svegliatevi! - esorta Douglas Bazi, il parroco di Sant’Elia che ospita i rifugiati - I vostri fratelli cristiani in Iraq stanno morendo. Aprite le porte e concedete alla mia gente i visti per emigrare e andarsene da questo paese orribile”.

I cristiani in fuga vivono come bestie nel centro commerciale in costruzione di Ainkawa dove gli “alloggi” sono dei loculi, che talvolta hanno dei teloni azzurri al posto del soffitto. “Venite a vedere come siamo sistemati in sette in questo stanzone umido e con i materassi per terra” si lamenta Noor Sabah. In inglese stentato spiega che non può tornare a casa con la sua famiglia: “Ci sgozzerebbero”. E per essere sicuro che lo abbiamo capito fa il segno con la mano, che passa come un coltello sotto la gola. Patrick Enwyia, volontario dell’organizzazione americana “Save Iraqi Christian” è il giovane responsabile di uno dei centri “abitativi”. “Intere famiglie cristiane esasperate stanno scegliendo la via dell’ingresso clandestino in Europa pagando anche 10mila dollari ai trafficanti di uomini” ammette sconsolato.

Nel loculo A 203 del centro commerciale in costruzione di Erbil, quattro metri per quattro, sopravvive la famiglia di Cristina Khader Ebada, una bimba di tre anni. Il padre, cieco, si fa il segno della croce quando entriamo. La madre Aida è disperata: “I terroristi sono arrivati nella nostra cittadina, Karakosh, urlando Allah o Akbar e che i cristiani devono andarsene. Il 22 agosto ci hanno caricato su degli autobus. Prima siamo stati derubati e poi un uomo vestito di nero, lo sguardo da diavolo ed i capelli bianchi si è preso la mia bambina, senza spiegazioni. Non l’ho più vista e non so dove sia”.

La chiesa di San Giuseppe è il quartier generale del vescovo caldeo di Mosul, Amil Nuna, costretto alla fuga con i suoi fedeli. “L’Occidente ci ha dimenticato - denuncia il prelato - Abbiamo bisogno di case per l’inverno, ma il progetto di 5mila abitazioni presentato all’Unione europea è rimasto lettera morta”.

 

AL QOSH (Kurdistan) - Giovanissimi con le armi in pugno pattugliano le strade di Al Qosh, una cittadina cristiana nel nord del’Iraq a ridosso del fronte della guerra con il Califfo. Un ragazzino con la barbetta avrà poco più di 20 anni. Un suo compagno con il fisico da Rambo ostenta muscoli ed equipaggiamento militare americano.

I miliziani assiri presidiano chiese, monasteri, il cimitero e la loro sede fortificata piazzata in una posizione strategica. Athra Mansoor Kado faceva l’insegnante, ma con la minaccia dello Stato islamico alle porte è stato nominato vice comandante di una trentina di cristiani in armi ad Al Qosh. Non è l’unico reparto del Movimento democratico assiro, che ha due parlamentari a Baghdad. Sul giubbotto antiproiettile Kado si è fissato un braccialetto di perline con scritto “Free Assyria”, il sogno quasi impossibile di un’entità autonoma cristiana nel nord dell’Iraq. 

Perché vi siete armati?

“Il nostro primo obiettivo è riconquistare i villaggi e le città perdute di fronte all’avanzata dello Stato islamico (Isis). Così i cristiani potranno tornare nelle loro case. Per farlo abbiamo bisogno che il nostro territorio venga dichiarato zona protetta dalla comunità internazionale con un intervento sul campo. Poi saremo noi a garantire la sicurezza della nostra gente”.

Non vi fidate delle truppe curde?

“Il mio unico, vero, amico è questo fucile mitragliatore Ak 47. I peshmerga curdi e l’esercito iracheno si sono volatilizzati quando lo Stato islamico ha attaccato abbandonando i cristiani al loro destino. Assieme agli yazidi (un’altra minoranza massacrata dal Califfato nda) dobbiamo garantire protezione alle nostre comunità con il vostro aiuto. Dopo quello che è accaduto non possiamo fidarci di nessuno”.

Però avete armi solo leggere e poche munizioni. Come pensate di affrontare i seguaci della guerra santa?

“E’ vero. Ognuno di noi ha solo 120 proiettili. Per questo motivo chiediamo ai paesi che stanno inviando consiglieri ed istruttori militari in Iraq e nel Kurdistan di addestrarci e fornirci le armi necessarie. Non vogliamo che l’Europa o l’America combatta per noi, ma aiutateci a costituire delle unità che difenderanno la piana di Ninive occupata dall’Isis. Prima che venissimo cacciati era un’area a stragrande maggioranza cristiana”.

Lo avete già chiesto ufficialmente?

“Certo, ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta. I consiglieri occidentali stanno arrivando per addestrare ed armare solo i curdi. Agli assiri basterebbe una piccola percentuale di istruttori e armi. Come fate a non capire che dovete investire su di noi? Siamo cristiani come voi e abbiamo bisogno di aiuto per difendere una presenza millenaria in queste terre”.

Per il momento, però, siete pochi….

“Non abbiamo armi da consegnare alle migliaia di volontari cristiani dell’Iraq pronti a combattere. Non solo: riceviamo decine di richieste dall’Europa e dagli Stati Uniti di confratelli che vorrebbero venire al nostro fianco. Per il momento siamo costretti a farli rimanere a casa perché non siamo in grado di addestrarli e armarli”.

Chi vi fornisce l’equipaggiamento?

“Mimetiche, giubbotti antiproiettile, porta munizioni arrivano spesso dall’estero grazie alle collette fra le comunità assire in Occidente”.

Qual è la vostra missione in questa cittadina cristiana a ridosso del fronte?

“Ad Al Qosh proteggiamo le nostre famiglie. La casamatta sul tetto della sede domina le vie d’ingresso alla città, che sorvegliamo giorno e notte. In caso di attacco il primo obiettivo è evacuare in sicurezza i cristiani. E poi resistere anche se abbiamo solo 120 proiettili a testa. Siamo pronti a farlo fino alla morte. Non vogliamo più scappare”.

Molti cristiani sperano solo di emigrare stufi delle violenze. Non temete che ci sarà la fuga invece che la resistenza?

 

“Come assiri abbiamo una storia di settemila anni e siamo cristiani da oltre duemila. Amiamo la nostra terra e vogliamo restare a qualunque costo, ma l’Occidente non deve rimanere a guardare impotente il nostro genocidio”.


[continua]

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28 novembre 2014 | SKY TG 24 | reportage
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La storia dimenticata dei profughi cristiani in Iraq.

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L'avanzata del Califfato
Il califfato con Baghdad capitale, Corano e moschetto, mani amputate ai ladri, nemici crocefissi, tasse islamiche, donne chiuse in casa ed Occidente nel mirino con l’obiettivo di governare il mondo in nome di Allah. Questo è lo “Stato islamico dell’Iraq e della Siria” (Isis), che sta conquistando città dopo città rischiando di far esplodere il Medio Oriente.

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