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Reportage
04 novembre 2015 - Esteri - Iraq - Panorama
Faccia a faccia con l’Isis. Ecco la guerra combattuta in prima linea

testo e foto di Fausto Biloslavo - da Sinjar (Iraq) 

Il rombo dei caccia alleati si fa sempre più minaccioso nel buio fitto della notte. I combattenti curdi sono appiccicati ai sacchetti di sabbia delle trincee che dominano Sinjar, la città martire irachena occupata dalle bandiere nere. Tutti pronti: armi e telefonino in pugno per filmare la scena. Il sibilo mortale della bomba sganciata dall’aereo fende l’aria. Pochi secondi dopo, una palla di fuoco illumina di rosso gli scheletri in cemento delle case di Sinjar. I boati a catena delle esplosioni segnano il ritmo dei bombardamenti martellanti delle ultime settimane. Da qualche parte sulle colline, una squadra dei corpi speciali britannici guida l’attacco dal cielo. Da Sinjar gli abitanti della minoranza religiosa yazida (30 mila anime) sono fuggiti nell’agosto dello scorso anno. Oppure sono stati massacrati e sequestrati dagli uomini neri dello Stato islamico, che li bollano come adoratori del diavolo. 

L’attacco per liberare la città nel nord ovest dell’Iraq sembra imminente. L’obiettivo è tagliare in due il Califfato, spezzando l’arteria stradale che dalla Siria porta i rifornimenti a Mosul, la capitale delle bandiere nere. In prima linea, per dare la spallata finale, stanno arrivando anche le armi italiane. Due Peshmerga, i combattenti curdi, sono appena tornati da un corso di addestramento dei nostri soldati della missione Prima Parthica nel nord dell’Iraq. In dote hanno portato delle lunghe casse verde militare con scritto sopra «lanciatore Folgore». Una sorta di cannone senza rinculo, che montano velocemente su un treppiede per spiegare ai commilitoni come usarlo. 

I proiettili controcarro, che spuntano dalle casse, «li utilizziamo contro le casematte dei terroristi di Daesh (lo Stato islamico, ndr) asserragliati in città» spiega il maggiore Hoswar Hakim Shaban. I Peshmerga hanno messo fuori uso la precedente arma controcarro italiana dopo aver sparato soltanto 15 colpi. Da gennaio, quando i paracadutisti italiani sono arrivati in Kurdistan con poco più di 200 uomini per addestrare i Peshmerga hanno fornito loro, senza fare troppa pubblicità, 80 armi controcarro di questo genere con mille colpi. Ai Folgore vanno aggiunte le mitragliatrici Browning e munizionamento di vario tipo. Pochi sanno che proprio a Sinjar, 1800 anni fa la legione romana Prima Parthica, che dà il nome alla missione italiana, piantò il campo più avanzato in Mesopotamia.

Sulle trincee di oggi si incontra Gadir Isa, 28 anni, che ti chiede sottovoce se sei cristiano. E ti fa vedere sul telefonino le immagini di Gesù, Maria e Giovanni Paolo II. Il giovane con la croce al collo e il volto tirato sotto l’elmetto spiega che «in questa trincea combattiamo fianco a fianco, come fratelli, anche se abbiamo fedi diverse, contro un nemico disumano. Spero solo che il Papa preghi per noi cristiani dell’Iraq perseguitati dallo Stato islamico». Non finisce la frase, che arrivano sibilando sopra le nostre teste i proiettili degli uomini neri del Califfo. I Peshmerga scattano per rispondere al fuoco attraverso le feritoie. Alla fine della sparatoria ci servono tè scuro, in bicchieri fumanti, come se fossimo in Inghilterra, ma usando come vassoio il coperchio in legno di una cassa di munizioni.

Sinjar è una distesa di distruzioni. Gli unici segni di vita sono i camion che passano sulla Santa Fè, il nome in codice della strada che dal vicino confine siriano arriva fino a Mosul. Fra le macerie e sotto terra si annidano 500 jihadisti, compreso un manipolo di afghani votato alla morte, secondo l’intelligence occidentale. «Noi siamo anche il vostro baluardo contro il Califfato» dichiara il generale Izzedin Sa’din Saleh. «Dall’Europa, compresa l’Italia, sono arrivati in migliaia ad arruolarsi con le bandiere nere. Se non li sconfiggiamo, prima o dopo torneranno per portare la guerra a casa vostra». Il comandante della dodicesima brigata sul fronte di Sinjar combatte da quando portava i calzoni corti e ha un paio di baffetti che sono una via di mezzo fra lo stile Adolf e quello di Clark Gable. 

Sulla collina che domina la città si intercettano con le radio portatili gli uomini neri dello Stato islamico che chiamano un loro comandante (nome in codice «Abu Aisha, Abu Aisha» ) chiedendo «di far intervenire i cecchini». Poco dopo, i colpi delle mitragliatrici pesanti jihadiste si conficcano sul monte Sinjar, alle nostre spalle, con sbuffi luminosi. Lo stesso generale carica un mortaio e lancia una granata verso una postazione in città, che con un potente tonfo solleva una nuvola di fumo grigio. Sulle nostre teste vola un drone a caccia di nuovi 

obiettivi per gli aerei alleati. Sul fianco destro, il primo battaglione yazida trincerato in un campo in mezzo al deserto, a otto chilometri dalla Siria, è in stato di allerta per l’offensiva. Uno dei combattenti tira fuori con orgoglio dalla mimetica il certificato del corso di addestramento di fanteria con i parà italiani.

L’Italia comanda un contingente di 600 militari europei che hanno già formato 5 mila Peshmerga (2 mila dai parà). Ad Hatrush i guastatori paracadustisti fanno avanzare le reclute in mezzo a mine, trappole esplosive e finti cadaveri zeppi di tritolo, come su un vero campo di battaglia. Per evitare rappresaglie, i soldati italiani hanno l’ordine di dire solo il nome. Michele, chiamato Sax, veterano dell’Afghanistan spiega come «i Peshmerga ci raccontano dei “mostri”: enormi blindati artigianali corazzati da ulteriori pannelli d’acciaio, usati come arieti carichi di esplosivo per sfondare le loro trincee con attacchi suicidi». Il fronte nel nord dell’Iraq corre lungo mille 

chilometri, da Kirkuk a Mosul fino a Sinjar. Il colonnello juventino degli alpini, che comanda la missione, non ha dubbi: «Lo Stato islamico è strutturato militarmente grazie a ex ufficiali di Saddam. I volontari stranieri sono i loro pretoriani. A Mosul si stima che siano 3-4 mila. Ci vorrà un anno, ma la battaglia finale sarà la loro Berlino».

Per la guerra in Iraq abbiamo schierato 500 uomini fra paracadutisti al nord, un centinaio di carabinieri a Baghdad per addestrare la polizia e l’aeronautica con quattro Tornado e due droni in Kuwait, che volano solo in ricognizione per individuare gli obiettivi. «Va bene scattare foto con i vostri caccia, ma non è abbastanza» sottolinea il colonnello Waziri Surche. «Aiutateci a fermare questi terroristi con i bombardamenti e forniteci blindati, visori notturni e armi pesanti. I kalashnikov non bastano». Con il volto scavato dalle poche ore di sonno, ci accoglie nel bunker in prima linea sul fronte di Sinjar, mentre fischiano le bombe degli aerei alleati.   

La notte del 25 ottobre 60 commando dei Peshmerga lanciano una sortita penetrando in città. Tutto il fronte si infiamma e il buio viene squarciato dai traccianti. I corpi speciali si aprono un varco fra i ruderi per 700 metri a colpi di lanciarazzi russi. Tre postazioni delle bandiere nere vengono travolte e fatte saltare in aria. Dopo un paio d’ore, i commando tornano indietro senza perdite. Un test per l’offensiva sulla città simbolo di Sinjar, che potrebbe segnare l’inizio della fine del Califfo. 


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Iraq
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