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Reportage
10 giugno 2016 - Prima - Iraq - Corriere del Ticino
Iraq, l’orrore dell’Isis negli occhi dei bimbi

LA GUERRA VISTA DAI PICCOLI IN FUGA DALLO STATO ISLAMICO

Fausto Biloslavo

MAKMOUR - I bambini vengono passati, come piccoli fagotti, dalle braccia dei genitori ai guerriglieri curdi in mimetica e kalashnikov per superare l’enorme fossato. Il “vallo” sul fronte di Makmour, a sud est di Mosul, la “capitale” irachena dello Stato islamico, serve a fermare i “mostri”, i veicoli corazzati e minati delle bandiere nere lanciati come arieti per sfondare la prima linea. Nel buio della notte la fuga disperata dalle zone controllate dal Califfato è illuminata dai riflettori dei Peshmerga. Se ne parla poco di questi profughi dimenticati, che sembrano spettri affiorati dall’incubo dello Stato islamico.

Due minorenni, sporchi e laceri, sono scappati dal loro villaggio alle 20.30 raggiungendo a piedi le linee curde verso mezzanotte. Mohammed, il più giovane, ci prega di non filmare i loro volti per timore di rappresaglie sui familiari rimasti a casa. “La vita sotto il controllo dello Stato islamico è un inferno. Se quelli del Daesh (Califfato nda) ci avessero intercettano saremmo morti” spiega con in mano una scodella di minestra e riso fornita dai curdi.  Abdullah, l’amico con la barbetta islamica, racconta di aver visto “una donna, che aveva cercato di scappare per arrivare alle linee dei Peshmerga. Le hanno sparato e poi esposto il corpo nel villaggio per tre giorni. Alla fine hanno dato fuoco al cadavere”.

I seguaci dello Stato islamico “arruolano a forza pure i ragazzini sostenendo che dobbiamo combattere per loro, che rappresentano il vero Islam”. I fuggiaschi raccontano che “è proibito tagliarsi la barba. Non possiamo fumare considerato haram (peccato). Se lo fai rischi di venir ucciso oppure ti frustano e ti fanno pagare una multa”. Nelle moschee “dicono che Abu Bakr al Baghdadi (il capo dello Stato islamico) è un profeta. Cristiani e curdi sono mortada (infedeli)”.

Miriam Ambrosini, responsabile dell’organizzazione non governativa Terre des homme, che protegge soprattutto i bambini è in prima linea: “Ci aspettiamo 30-50mila sfollati nelle prossime settimane a causa dei combattimenti, che lentamente stanno liberando le aree sotto controllo del Califfato”. Le famiglie in fuga dal fronte di Makmour sono tutte sunnite, che all’inizio avevano appoggiato le bandiere nere, ma poi hanno vissuto nel terrore. “Sono profughi dimenticati - osserva Miriam - perché la nostra attenzione negli ultimi tempi si è focalizzata su quelli che arrivano in Europa scappando dalla Siria e non sugli sfollati che hanno perso tutto, ma restano in Iraq”.

Tremila minori sono ospitati nel vecchio campo profughi di Dibaga. Duecentocinquanta bambini delle ultime ondate sopravvivono nella nuova tendopoli ricavata in un piccolo stadio. 

Tutti segnati dalla guerra, come Aja, 5 anni, fuggita con la famiglia in aprile. “Ad un certo punto ho visto il bagliore di un’esplosione e ritrovato mia madre in mille pezzi. Anche mia sorella era morta” racconta la bambina, che si è ritrovata con la famiglia sterminata da una mina.  “Anche se adesso sono salva nel campo odio la vita da quel giorno” ribatte Aja, che prova dolore come un adulto.

I bambini del campo profughi di Dibaga, nel nord dell’Iraq, si appiccicano alla rete metallica. Un piccoletto ha la testa fasciata, altri piangono o si azzuffano per entrare per primi nelle tende dove possono disegnare. Sotto i tendoni dell’Onu i piccoli in fuga dal Califfo provano a sfogarsi con i disegni, che ti stringono il cuore.

A sette anni tratteggiano in tutta la sua brutalità un uomo nero con il barbone ed i capelli lunghi da jihadista, che spara in testa ad un guerrigliero curdo raffigurato come salvatore. Un altro mujahed con la faccia da invasato falcia con una raffica di mitra un gruppo di bambini. Gli unici luoghi sicuri nei disegni dei più piccoli traumatizzati per sempre dalla guerra sono una moschea ed un camion dell’Onu, che porta via i profughi.

Malik, 4 anni, non dimenticherà mai il 20 marzo di quest’anno quando “mio padre è stato ucciso (dai terroristi) perché era un soldato (dell’esercito iracheno). Da quel giorno non ho più qualcuno da chiamare “papino”. Al contrario, il genitore di Ziad, 11 anni, “si è arruolato (con le bandiere nere) per guadagnare qualcosa, ma in febbraio è stato ucciso. Abbiamo perso tutto”.

Rashid, a soli 7 anni è stato costretto alla fuga dal villaggio di Arbandan. “Sono disabile e non riesco a camminare bene con il piede sinistro - racconta il ragazzino - Per questo siamo rimasti fino all’ultimo quando rischiavamo ogni giorno di morire sotto le bombe. I genitori mi hanno portato in braccio per un lungo e pericoloso cammino fino a quando non siamo stati in salvo”.

I bambini dimenticati dai 6 agli 8 anni disegnano anche gli elicotteri e gli aerei della coalizione alleata, che bombardano le bandiere nere. Altri schizzi riproducono fedelmente i “mostri”, i mezzi blindati artigianalmente dallo Stato islamico e riempiti con una tonnellata di esplosivo per gli attacchi suicidi.

Mohammed, 12 anni, viveva felicemente con la sua famiglia nell’area di Mosul fino all’arrivo della bandiere nere nell’estate del 2014. Il padre, militare dell’esercito iracheno, ha perso il posto e lo stipendio. “Doveva mendicare e spesso avevamo solo pane e acqua da mettere sotto i denti - ricorda il ragazzino - Durante un attacco dei combattenti curdi papà è stato preso dai terroristi. Ci hanno detto che l’avevano fucilato”. Dallo scorso anno Mohammed è scappato e vive da orfano nel campo profughi di Dibaga accettando lavori troppo pesanti per un dodicenne. “Era l’unico modo per mantenere i sopravissuti della mia famiglia - spiega - Il 31 maggio mi vengono a chiamare dicendo che c’è qualcuno per me all’ingresso del campo. Non ci potevo credere: era mio padre scampato all’esecuzione. Ci siamo abbracciati piangendo di gioia. Adesso la vita ricomincia”.  

MOSUL AL FRONTE, CORPI DECOMPOSTI E NUVOLE DI FUMO

Fausto Biloslavo

QABAROK - La potente esplosione rimbomba in lontananza. Oltre i sacchetti di sabbia si leva all’orizzonte un nuvolone di fumo grigiastro. Una seconda colonna color sabbia si alza verso il cielo. I caccia alleati danno la caccia alle bandiere nere dopo aver bombardato i ponti sul Tigri per evitare che i miliziani del Califfo possano inviare rinforzi. Seimila uomini, due brigate dell’esercito iracheno, avanzano lentamente da fine marzo liberando un reticolo di villaggi a sud est di Mosul, “capitale” dello Stato islamico in Iraq, obiettivo finale dell’offensiva che durerà tutto l’anno.

Di notte l’artiglieria dei marines americani martella la prima linea.  Camp Swift a Makmour è off limits per i giornalisti, ma i consiglieri militari Usa ed i corpi speciali tedeschi si incrociano facilmente nella base delle brigate irachene.

“Sul Tigri combattiamo non solo per liberare il nostro paese dalle bandiere nere, ma per il mondo intero. Dall’altra parte ci sono terroristi afghani, ceceni, europei. Li staneremo lanciando un’operazione anfibia per superare il fiume e aprirci la strada verso Mosul” dichiara il generale Firas Bashar Sabri. Toni trionfalistici per un’offensiva battezzata Al Fatah, la “conquista”, che sarà lunga e difficile. In questi giorni a Falluja, altra roccaforte sunnita, l’esercito iracheno arranca di fronte ai miliziani jihadisti votati alla morte, che usano i civili come scudi umani e sparano senza pietà sui profughi in fuga. Mosul è una grande città  con due milioni di abitanti, dove sarà impossibile avanzare senza mietere vittime fra i civili.

Il blindato iracheno si infila nel deserto avvolto da un polverone ed una calura  soffocanti. La postazione più avanzata è ricavata sul tetto di una villetta che domina il villaggio di Qabarok, l’ultimo conquistato il 9 maggio. Il Tigri è a 3 chilometri e sull’antenna per i telefonini della città fluviale di Qayara sventola la bandiera nera. La stessa dipinta all’ingresso di un tunnel scavato in una casa, che collegava sotto terra le postazioni nel villaggio. I sacchetti di sabbia di protezione sono quelli dell’Onu per gli aiuti umanitari. “La scorsa notte sono spuntati nel villaggio di Al Nasser uscendo da uno di questi cunicoli in una missione suicida. Abbiamo fatto saltare in aria gli ingressi” spiega un ufficiale del terzo reggimento, 71ima brigata. I suoi uomini hanno come simbolo un gladio infilato in un teschio, che è tutto un programma. Le milizie sciite aggregate ai reparti regolari sono accusate di non fare prigionieri e terrorizzare i civili sunniti in fuga. Il villaggio in prima linea è disabitato, ma le donne evacuate raccontano “che sotto le bandiere nere si viveva come i talebani in Afghanistan. Costrette a coprirci dalla testa ai piedi e restare quasi sempre tappate in casa”.

Una granata di mortaio esplosa troppo vicina ci fa velocemente sloggiare dalla prima linea. Lo Stato islamico sta arretrando dopo aver perso dall’avanzata del 2014 il 40% del territorio in Iraq, ma gli ex ufficiali di Saddam Hussein trasformati in emiri del Califfo sono ancora temibili. Comandanti come Libhi al Juburi, sheik Sami e sheik Sultan, nel mirino dei droni americani, sono gli strateghi della difesa di Mosul. 

Il loro ultimo colpo di coda è stato sferrato con 500 jihadisti della katiba (battaglione) Abu Omar al Naime ed una decina di mezzi minati per gli attacchi suicidi. Durante l’avanzata dell’esercito iracheno verso il Tigri hanno sfondato le linee dei Peshmerga penetrando nel territorio curdo per otto chilometri e conquistando per 24 ore il villaggio cristiano di Teleskof. “Quattro jihadisti erano asserragliati in una casa e sparavano come pazzi. Il mio amico Shorsh è riuscito ad avvicinarsi, sotto un fuoco d’inferno per lanciare dentro una bomba a mano” racconta Miran Nawzad Anwar, 25 anni, cecchino. “Dopo l’esplosione della granata Shorsh è entrato pensando che fossero tutti morti, ma uno era ancora vivo. Anche se ferito e si è fatto saltare in aria uccidendo il mio amico” spiega il giovane combattente curdo, che ha partecipato all’aspra battaglia del 3 maggio. Il corpo dilaniato di un kamikaze abbandonato nella sterpaglia emana un odore terribile. Poco più avanti un fuoristrada carbonizzato delle bandiere nere con i resti di una mitragliatrice pesante nel cassone è stato ridotto ad un groviglio di lamiere da un elicottero americano Apache. 

 

Nelle vicinanze sono stati sepolti con i bulldozer in una fossa comune una cinquantina di cadaveri jihadisti. Da una postazione sopraelevata circondata dai sacchetti di sabbia i Peshmerga sparano raffiche dimostrative verso le linee dello Stato islamico oltre un chilometro più avanti.

 

"PER COSTRINGERCI AD OBBEDIRE GLI SCAFISTI MINACCIAVANO DI BUTTARE I FIGLI E LE NOSTRE DONNE IN MARE"

Fausto Biloslavo

ERBIL (Nord Iraq) - “Ci ha salvato la Madonna” è convinto Fair Morzena il capo clan della piccola comunità di cristiani, che in febbraio ha tentato la sorte affidandosi ai trafficanti di uomini per raggiungere l’Europa. I cristiani fuggiti dall’avanzata in Iraq del Califfato avrebbero diritto all’asilo, ma a parte la Francia, nessun paese europeo concede il visto. Ogni settimana qualche famiglia sceglie il tragitto clandestino. “Non facciamo più notizia. L’Europa ci ha dimenticato, ma se fuggiamo tutti la millenaria presenza della cristianità in Iraq rischia di scomparire per sempre” sottolinea padre Yako Jalal, che ci accompagna dai cristiani che rischiavano di affogare nel Mar Egeo.

Come è iniziato il viaggio verso l’Europa?

“Siamo partiti da Erbil in aereo atterrando all’aeroporto di Istanbul dove sono venuti a prenderci con delle macchine nere con i finestrini oscurati. Eravamo in 92 stipati come bestie in sette appartamenti per una settimana”.

Poi avete raggiunto la costa?

“La prima volta la polizia ci ha intercettato e rimandato ad Istanbul. Dopo una settimana abbiamo fatto un altro tentativo, ma il freddo era pungente. Le donne, soprattutto quelle in cinta ed i bambini soffrivano tantissimo. Siamo tornati di nuovo indietro. I punti di imbarco per attraversare l’Egeo erano Izmir e Bodrum. I trafficanti ci obbligavano a segnalare sempre la nostra presenza con il telefonino grazie a Google map. Mandavamo le coordinate al boss. Alla fine, al terzo tentativo ce l’abbiamo fatta, dopo aver camminato per ore su delle alture molto ripide”.

L’imbarco come è avvenuto?

““Fra poco vi imbarcheremo per la Grecia” ci hanno detto i trafficanti che erano armati. In realtà abbiamo dovuto bivaccare come animali nella boscaglia. Quando i bambini si mettevano a piangere ci puntavano le armi ordinando di farli smettere. Volevano che somministrassimo ai nostri figli dei sonniferi per non farci sentire. Avevamo paura che ci facessero del male. Noi uomini circondavamo le donne fino all’alba per difenderle”.

Quando siete scesi verso la spiaggia?

“Verso le dieci e mezza di sera. Ci abbiamo messo oltre un’ora sempre sotto la minaccia delle armi. Quando siamo arrivati sulla spiaggia pensavamo di salire su una barca robusta, vera e propria, che ci avevano fatto vedere in fotografia. Invece era un gommone. Ci hanno puntato le armi obbligandoci all’imbarco. L’ordine era di fare il massimo silenzio e di non fumare. Per forzarci a salire prendevano i bambini e li buttavano sul gommone. Così le mamme li seguivano. E noi mariti non potevamo abbandonarli. Una tattica che ci faceva sentire prigionieri. E se qualcuno protestava li puntavano contro la pistola”.

Alla fine avete preso il largo…

“Sì in quaranta su un solo gommone. Il mare era mosso. Dopo una cinquantina di metri nel buio lo scafista al timone andava sempre più veloce, ma c’erano troppe onde. Li abbiamo detto: “Fermati, fermati. Stiamo andando incontro alla morte”. Un’onda di due metri ci ha quasi travolto. Il gommone si è riempito d’acqua. I bambini e le donne gridavano. E gli scafisti intimavano di star zitti “altrimenti gettiamo i vostri figli in mare”. La nostra gente era terrorizzata e allora ho cominciato a dire: “Pregate Maria, la Madonna. Ci salverà”. E loro ripetevano: “Maria salvaci, Maria salvaci”.

Siete naufragati?

“Ad un certo punto il motore si è fermato ed il gommone girava in tondo. Tutti gridavano: “Non vogliamo morire”. Un’onda fortissima ci ha lanciato verso la spiaggia. Poi il gommone si è capovolto. Questo bambino che ho in braccio era caduto in acqua, come mia figlia, quasi affogata. Anche donne in cinta sono finite in mare. Un caos indescrivibile, ma per miracolo siamo riusciti a raggiungere la spiaggia e a salvarci”.

E poi cosa è accaduto?

“Gli scafisti ci minacciavano e urlavano che dovevamo imbarcarci di nuovo, ma avevamo paura di annegare e volevamo solo andarcene. Poi è arrivata la polizia e hanno cominciato a sparare. Ci siamo buttati a terra durante lo scontro a fuoco. Alla fine gli agenti ci hanno portato in caserma e rilasciato”.

Dove volevate andare?

“Il nostro obiettivo era raggiungere la Grecia e poi la Germania. 

Il costo per ognuno, se avessimo attraversato l’Egeo, era di 2500 dollari. Quando siamo tornati ad Istanbul gli scafisti ci hanno comunque obbligato a pagare 500 dollari a testa”. 

Volete riprovarci?

 

Interviene Fabronia, una delle donne che stava per annegare: “Mio marito è già a Vienna. Devo raggiungerlo con i nostri due figli, ma abbiamo vissuto un’esperienza terribile (scoppia a piangere). Noi cristiani vogliamo andare in Europa, ma con il visto. Non imbarcandoci in viaggi pericolosi attraverso il mar Egeo. Il Santo Padre non può aiutarci?”.

[continua]

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18 novembre 2015 | Virus Raid due | reportage
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LE IMMAGINI DELLA BATTAGLIA DI SINJAR NEL NORD DELL'IRAQ VICINO AL CONFINE SIRIANO, CHE HA SPACCATO IN DUE IL CALIFFATO. COLLEGAMENTO SULL'INTERVENTO DI TERRA: "SPAZZARE VIA IL CALIFFATO NON E' IMPOSSIBILE, MA NON ABBIAMO GLI ATTRIBUTI E LA VOLONTA' POLITICA DI UNIRE LE FORZE"

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21 giugno 2016 | Caffè di Rai 1 | reportage
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Sulle macerie della guerra in Iraq, grazie al Rotary, abbiamo raccontato il dramma dei profughi dimenticati. Siamo stati gli occhi della guerra lungo il fronte dove scappano i rifugiati dall'offensiva su Mosul, la capitale del Califfato. Siamo andati nei campi dove i cristiani in fuga vivono in condizioni miserevoli. Siamo stati sotto le tende dei siriani attirati dai trafficanti per partire verso l’Europa. Abbiamo raccolto le testimonianze dei rifugiati yazidi massacrati dalle bandiere nere. Con le loro donne schiave come Lamja saltata su una mina per fuggire allo Stato islamico. Drammi veri provocati dalla tragedia della guerra.Storie terribili, che non possiamo dimenticare e che abbimo presentato 7 giugno a Cremona.

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22 novembre 2014 | | reportage
Premio Cutuli
Da Erbil collegamento per ricordare Maria Grazia uccisa dai talebani il 19 novembre 2011 a Surobi sulla strada per Kabul

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31 ottobre 2010 | Nuova Spazio Radio | intervento
Iraq
Wikileaks dice quello che si sa già. Per tutti è un grande scoop
I rapporti Usa che smonterebbero la versione italiana di un episodio della battaglia dei ponti ad An Nassiryah e la morte accidentale di un paracadutista in Iraq sono la classica tempesta in un bicchier d’acqua. Le rivelazioni di Wikileaks sugli italiani della missione Antica Babilonia derivano dagli stessi rapporti scritti dal nostro contingente, che lungo la catena di comando arrivavano fino al quartier generale americano a Baghdad. E altro ancora.

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26 agosto 2010 | Radio Anch'io - Radio Uno | intervento
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Missione compiuta?
Il ritiro del grosso dei soldati americani lascia un paese ancora instabile, ma la missione è in parte compiuta.

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06 ottobre 2015 | Zapping Rai Radio 1 | intervento
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Raid italiani in Iraq?
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14 giugno 2014 | Radio24 | intervento
Iraq
L'avanzata del Califfato
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