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Reportage
24 agosto 2016 - Attualità - Libia - Il Giornale
Battaglia finale all’Isis: ultimi giorni a sirte per i fanatici del Califfo
Sirte (Libia) Sul tetto della palazzina sbrecciata dalle cannonate tenere bassa la testa ti salva la pelle. I proiettili dei cecchini sibilano dappertutto. La raffica di mitragliatrice sventaglia le postazioni dello Stato islamico. Un ragazzo poco più che ventenne imbraccia l'arma sparando all'impazzata. Un altro, ancora più giovane, è rannicchiato al suo fianco e lo segue per far scorrere il nastro di pallottole.
Il quartiere Abu Faraa, a ridosso del centro di Sirte, è avvolto nel fumo nero dei colpi di artiglieria e degli attacchi con i droni americani. La battaglia finale per la caduta dell'ex roccaforte delle bandiere nere è iniziata domenica con aspri combattimenti durati fino a sera. «Tre o quattro giorni e liberiamo Sirte dai terroristi», sentenzia il colonnello Ismail Shoukri, comandante dell'intelligence. Non è una passeggiata. Le ultime, poche centinaia di miliziani del Califfo, piuttosto che arrendersi si fanno ammazzare. L'assalto ad Abu Faraa scatta alle sette del mattino ed è subito scontro feroce. I vecchi carri armati di fabbricazione sovietica sferragliano per piazzarsi su una postazione sopraelevata. Se un invisibile cecchino spara da un palazzo gli tirano una cannonata.
I combattenti delle katibe, le unità libiche in prima linea contro le bandiere nere, urlano Allah o Akbar, Dio è grande, ad ogni esplosione. Giovani ed anziani di Misurata, Tripoli, Zliten, Zuara e altre città una volta tanto sono uniti per sconfiggere lo Stato islamico con l'appoggio aereo americano. I fuoristrada con la mitragliatrice contraerea sul cassone posteriore, che sfrecciano agli incroci, sono l'arma migliore. I combattenti della katiba Abu Slim, della capitale, dedicata al martire Salah al Burki, corrono verso la montagnetta di sabbia che blocca la via, a ridosso della terra di nessuno, prendendo posizione.
Un mortaio pesante nascosto da qualche parte fra le case alle nostre spalle lancia tre colpi a distanza di pochi minuti verso una palazzina in mano allo Stato islamico con un boato pazzesco. Dal buco nel muro utilizzato da un cecchino si vede bene la parte deserta della città ed il fumo nero alzato dall'impatto delle granate di mortaio. Dietro un edificio ridotto a groviera dai combattimenti vengono distribuite bottigliette d'acqua fresca, mele, dolci e lattine di Pepsi Cola ai combattenti assetati con una temperatura che sfiora i 40 gradi. «Sir, come va?» urla sorridendo un ragazzino magro e sbarbatello. Fino a ieri faceva il cameriere in un caffè di Misurata. Oggi è in guerra.
La battaglia si concentra attorno all'ufficio delle Finanze di Al Hesba. Le raffiche si alternano al tonfo delle esplosioni. Tutti, compresi i giornalisti, devono appiccicarsi addosso degli adesivi color giallo per non farsi ammazzare dal fuoco amico. Ogni giorno il colore cambia evitando infiltrazioni delle bandiere nere. Il tributo di sangue dell'avanzata registra 15 morti e un'ottantina di feriti. A ridosso della prima linea i libici hanno ricavato un pronto soccorso in un negozio abbandonato. Dall'ambulanza esce una barella con un combattente colpito al fianco da un proiettile. Semi incosciente lo sdraiano su una lettiga e tagliano la giacca mimetica. La ferita è grave. Si vede il foro d'entrata, ma non quello di uscita. Non ce la farà. Sugli altri lettini da campo c'è un ferito bianco come un lenzuolo per il sangue che ha perso e altri meno gravi. I giovani infermieri infilano l'ago delle flebo nelle vene ed i medici lottano per stabilizzare i pazienti ed evacuarli agli ospedali da campo alle porte di Sirte e Misurata. «Abbiamo bisogno di ortopedici e chirurghi esperti in lesioni traumatiche. L'Italia ci aiuta e vi ringraziamo, ma ci serve di più e subito» spiega Mohammed Lajnef, che per tutto il giorno cerca di strappare i feriti alla morte.
Una camionetta stracolma di combattenti arriva a tutta velocità. Gli uomini armati urlano e trascinano giù una donna con il capo coperto e una tunica rossa fino ai piedi. «È una maledetta sposa di un terrorista. Sparava anche lei e ha colpito due dei nostri prima che la catturassimo» racconta trafelato una specie di Rambo libico in mimetica sudato fradicio. La donna viene consegnata all'intelligence, come il ragazzino, neppure maggiorenne, che arriva poco dopo. La guerra a Sirte è senza pietà. I droni americani hanno filmato donne e bambini delle famiglie dello Stato islamico, che scendevano in strada per fare da scudi umani ai bombardamenti.
In una stradina laterale appena liberata ci mostrano tre corpi aggrovigliati dei miliziani jihadisti. Quello in mezzo sta cominciando a gonfiarsi per il caldo, ma si vede che ha la pelle scurissima e le sembianze diverse dagli altri. Forse è un volontario della guerra santa nigeriana di Boko Haram. La scena più incredibile è quella di un furgoncino corazzato in maniera artigianale fermo in mezzo alla strada. Sul volante è riverso il corpo di un kamikaze. La lamiera è ridotta ad un groviera dai proiettili di mitragliatrice pesante. Un cecchino deve averlo colpito, ma nel cassone sul retro ci sono ancora bombole di gas, esplosivo e fili per l'innesco. Nessuno osa toccarlo per timore che salti tutto in aria.
Ampie aree residenziali del quartiere 1 e del quartiere 3 di Sirte, a ridosso del mare, sono ancora in mano alle bandiere nere, ma la fine della «capitale» del Califfato in Libia è vicina.
www.gliocchidellaguerra.it
[continua]

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01 luglio 2019 | TG4 | reportage
#IoNonStoConCarola
“Io non sto con Carola”, la capitana trasformata in eroina per avere violato la legge. E bisognerebbe dirlo forte e chiaro per rompere questa illusione di solidarietà maggioritaria pompata ad arte dalla sinistra, da Ong talebane dell’accoglienza, una bella fetta dela Chiesa e dai pezzi da novanta del facile buonismo radical chic come Saviano, Fazio, Lerner e Murgia. Per non parlare del governo tedesco e francese, che con una faccia di bronzo unica, ci fa la morale sulla capitana. Ovviamente è passato sotto silenzio un sondaggio del 27 giugno su Rai3, non proprio una rete mangia migranti, che svelava come il 61% degli italiani fosse contrario all’attracco della nave Sea watch a Lampedusa, ancora prima dell’epilogo forzato deciso dalla capitana. Se al volante della tua automobile trovi lungo la strada un carabiniere con la paletta che intima l’alt, cosa fai? Accosti e non sfondi il posto di blocco. Se speroni la macchina dell’Arma vieni rincorso armi in pugno e ti arrestano, ancor più se a bordo hai dei clandestini. E nessuno si sognerebbe di alzare un dito in tua difesa con pelose giustificazioni umanitarie. Carola Rackete ha sfondato il blocco ordinato dal Viminale, violato la legge, speronato una motovedetta mettendo in pericolo la vita dei finanzieri a bordo e la stanno trasformando in un’eroina dei due mondi. Non solo: da oggi potrebbe essere libera e bella. Un mondo alla rovescia dove le Ong si sostituiscono agli stati e fanno quello che vogliono calpestando la sovranità nazionale del nostro paese. Per non parlare del paradosso che Sea watch, grazie al polverone sollevato, ha pure incassato oltre un milione di euro con raccolte fondi in Germania e in Italia per la difesa dell’eroina dei due mondi. Carola ha agito in stato di necessità per “salvare vite umane” sostegno i suoi fan. Ma se vogliamo salvare veramente i migranti in Libia, a cominciare da quelli rinchiusi nei centri di detenzione, dobbiamo continuare a riportarli a casa loro come sta facendo a rilento e fra mille difficoltà una delle agenzie dell’Onu, difficile da paragonare a SS moderne. E non andarli a prendere al largo della Libia come ha fatto la capitana, che rimane indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E piuttosto che sbarcarli in Tunisia il posto più vicino a sicuro li ha portati dritta, dritta in Italia per creare un caso politico usando come paravento “le vite salvate in mare” La dimostrazione è la pattuglia di parlamentari di sinistra salita a bordo in favore di telecamere. L’obiettivo finale dei talebani dell’accoglienza è tornare a spalancare le porte dell’Europa agli sbarchi di massa del passato con 170mila arrivi all’anno in Italia Non si tratta di parteggiare per Salvini o il governo, ma di smetterla di farci prendere in giro trasformando la capitana che ha violato scientemente la legge in un’eroina. Per questo gli italiani, primi fra tutti i moderati dotati di buon senso, dovrebbero dire forte e chiaro “io non sto con Carola”.

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21 ottobre 2011 | Uno Mattina | reportage
La morte del colonnello
Muammar Gheddafi si è asserragliato nell’ultimo bunker di Sirte andando incontro al suo destino di polvere e sangue. In fondo è morto come aveva vissuto, sul filo del rasoio, in una sorta di piazzale Loreto libica. Non era l’Hitler del Nord Africa, ma aveva le mani tremendamente sporche di sangue non solo del suo popolo

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25 aprile 2012 | Uno Mattina | reportage
Italia-Libia, un anno dopo non solo petrolio
Un anno dopo l’inizio dei bombardamenti della Nato in Libia l’Italia torna a Tripoli con due navi militari. La missione della nostra Marina rinsalda i rapporti fra i due paesi dopo la rivolta che ha fatto crollare il regime del colonnello Gheddafi. Rida Eljasi durante la rivolta era un intreprete dei giornalisti italiani con l’avallo del regime. Fra le macerie di Bab al Azizya, l’ex roccaforte di Gheddafi a Tripoli, racconta, come in realtà, facesse la spia per i ribelli. E queste sono le immagini dei bombardamenti del bunker di Gheddafi che Rida ci forniva. Nella nuova Libia non c’è solo il petrolio. A quaranta minuti di macchina da Tripoli le bombe della Nato hanno evitato lo stabilimento di elicotteri italo-libico messo in piedi dall’Agusta Westland. E adesso i libici vogliono tornare velocemente a lavorare sugli elicotteri come spiega il giovane ingegnere Abdul Rahman. Abbiamo conosciuto Samira Sahli, che lavora per la banca Unicredit, in questa manifestazione di protesta in piazza Algeria a Tripoli repressa da Gheddafi a raffiche di mitra. Un anno dopo la ritroviamo nella stessa piazza. I controllori di volo italiani dell’Enav sono sbarcati a Bengasi e Tripoli per aiutare i loro colleghi libici a riaprire lo spazio aereo. Con la guerra l’Italia ha perso oltre 30 milioni di euro di diritti per mancati sorvoli perchè gli aerei passeggeri dovevano aggirare la Libia. Nonostante le elezioni previste il 23 giugno, Tripoli e gran parte della Libia sono in mano alle milizie. Ai posti di blocco spariscono, ancora oggi, gli ex sostenitori di Gheddafi, anche se non sono ricercati. Pseudo bande di “rivoluzionari” usano la scusa dell’arresto per poi liberarli in cambio di un riscatto.

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radio

29 aprile 2011 | Spazio Radio | intervento
Libia
Piegare Gheddafi e preparare l'intervento terrestre
Gli americani spingono con insistenza per un maggiore coinvolgimento dell’Italia nel conflitto in Libia, non solo per passare il cerino politico agli europei. L’obiettivo finale è piegare il colonnello Gheddafi e far sbarcare una forza di interposizione in Libia, con ampia partecipazione italiana. Un modello stile ex Yugoslavia, dove il contingente occidentale è arrivato dopo l’offensiva aerea.

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26 aprile 2011 | Radio 101 | intervento
Libia
Con Luxuria bomba e non bomba
Il governo italiano, dopo una telefonata fra il presidente americano Barack Obama ed il premier Silvio Berlusconi, annuncia che cominciamo a colpire nuovi obiettivi di Gheddafi. I giornali titolano: "Bombardiamo la Libia". E prima cosa facevamo? Scherzavamo con 160 missioni aeree dal 17 marzo?

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08 marzo 2011 | Panorama | intervento
Libia
Diario dalla Libia
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12 maggio 2011 | Nuova spazio radio | intervento
Libia
Che fine ha fatto Gheddafi?
Il colonnello Gheddafi è morto, ferito oppure in perfetta forma, nonostante le bombe, e salterà fuori con la sua ennesima e prolissa apparizione televisiva? Il dubbio è d’obbligo, dopo i pesanti bombardamenti di Tripoli. Ieri è ricomparaso brevemente in un video girato durante un incontro, all'insaputa dei giornalisti, nell'hotel di Tripoli che ospita la stampa internazionale.

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09 marzo 2011 | Panorama | intervento
Libia
Diario dalla Libia
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