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Reportage
01 settembre 2016 - Notizie - Libia - Grazia
L’ultima battaglia per fermare il Califfo

Le colonne di fumo nero si alzano verso il cielo trasformando Sirte in una città spettrale. Non c’è un edificio risparmiato da una cannonata o dalle raffiche di mitra.

I colpi di artiglieria partono con un boato che ti fa scorrere un brivido lungo la schiena. Poi si schiantano sugli uomini con le bandiere nere, circondati in due quartieri a ridosso del mare alzando dense nuvole di fumo. L’ex roccaforte dello Stato islamico in Libia sta per venir spazzata via. Se non basta l’artiglieria intervengono i caccia americani con bombardamenti mirati. Le milizie libiche, in gran parte combattenti della città-stato di Misurata, sono sul punto di vincere questa battaglia anche per noi. La “capitale” del Califfo dall’altra parte del Mediterraneo è sull’orlo del crollo.

Non avrei mai pensato di tornare a Sirte per raccontare la fine delle bandiere nere. Nel 2011, durante la rivolta contro Gheddafi, avevo raggiunto la città natale del colonnello, che guidava il Paese arabo, rimanendo bloccato sotto i bombardamenti della Nato.

«Combattiamo non solo per la Libia, ma anche per voi. La distanza dalle nostre coste all’Italia non è enorme. Daesh, lo Stato islamico, voleva usare Sirte come base per minacciare il Mediterraneo e l’Europa», spiega Fathi Bashaga, deputato di Misurata, ex pilota e commerciante di pneumatici, amico del nostro Paese. Una lotta costata già 400 “martiri”, come battezzano da queste parti i caduti in combattimento, e 3.500 feriti.

La battaglia finale è iniziata il 21 agosto con l’offensiva sul quartiere a ridosso del centro di Abu Faraa. Almeno 300 miliziani del Califfo votati alla morte sono decisi a vendere cara la pelle. L’attacco parte alle 7 di mattina e si scatena l’inferno. Combattenti giovanissimi sparano sventagliate di mitragliatrice dai tetti. I proiettili dei cecchini sibilano da tutte le parti. Quelli delle bandiere nere individuati fanno una brutta fine. La cannonata di un carro armato li riduce in briciole.

Piegato a terra con giubbotto antiproiettile di 10 chili ed elmetto, ansimo per le scale di una palazzina ridotta a uno scheletro di cemento armato, che domina la battaglia. I combattenti ti indicano quando abbassare la testa o scattare come un centometrista per evitare di venir colpito. Da un buco nella parete osservo Sirte trasformata in un girone dantesco.

A ridosso della prima linea il Pronto soccorso ricavato in un negozio sembra l’anticamera dell’inferno. L’ambulanza scarica un 30enne in mimetica con lo sguardo quasi spento. Sul lettino da campo gli tagliano la tuta mimetica. Dal buco di un proiettile sul fianco esce sangue. Altri feriti si lamentano o pregano Allah. Nessuno fra medici e infermieri dice una parola. Si muovono come automi in una lotta contro la morte.

Nelle strade appena liberate, fra i crateri dei colpi di mortaio e le case abbandonate, i corpi dei seguaci del Califfo marciscono al sole. Un attentatore suicida colpito prima di farsi esplodere è riverso sul volante di un furgoncino corazzato artigianalmente, con bombole di gas ed esplosivo nel retro. Nessuno osa toccarlo per paura che salti tutto in aria.

Tre miliziani dello Stato islamico sono aggrovigliati uno all’altro. Il lezzo è terrificante, ma osservandoli da vicino si nota che quello in mezzo viene dall’Africa nera. Forse è un volontario della guerra santa nigeriana di Boko Haram (nella lingua locale significa “l’Occidente è peccato”).

Sirte era un trampolino di lancio oltre il Mediterraneo, fino a casa nostra. L’edificio liberato, basso e giallo sulla spiaggia, deve essere stato usato come posto di comando. Sulla parete di destra c’è lo squarcio di una cannonata. Accanto è rimasta la grande scritta in arabo: “Questa è la strada per Roma”, affiancata dal disegno di una scimitarra. Sotto, una grossa freccia indica la direzione vero il Mare Mediterraneo che brilla di un blu intenso a 100 metri di distanza. La cannonata ha mandato in mille pezzi la firma dell’inquietante graffito nero: “Lo Stato islamico è qui per rimanere ed espandersi verso Roma con la volontà di Allah”.

All’interno del covo c’è il caos. Fra le carte abbandonate trovo una ricevuta del ministero degli Esteri del Sudan per denaro versato forse per un visto o un permesso. Da quel Paese africano sono arrivate legioni di volontari a dare man forte alla brigata internazionale del Califfo ancora annidata a Sirte. Uno dei documenti più interessanti è un pieghevole con le tabelle di tiro dei colpi di mortaio. Le istruzioni per utilizzare le granate non sono scritte in arabo, ma in inglese, francese e spagnolo. Il munizionamento doveva essere occidentale e la tabella poteva venir letta solo da chi conosce queste lingue europee.

Mustafa al Sharbani è il paffuto e giovane comandante della terza katiba, ovvero brigata, di Misurata schierata in prima linea. «Sul telefonino di uno dei terroristi uccisi«, racconta, «abbiamo trovato un sms inviato a un numero libico con questo messaggio: “Presto saremo a Roma”».

Il colonnello Ismail Shoukri, responsabile dell’intelligence, sospetta che «alcuni seguaci di Daesh in fuga si siano infiltrati in Europa con i barconi spacciandosi per migranti». Dalla trappola di Sirte sono scappati i capi delle bandiere nere, come Moez Fezzani, il cui nome di battaglia è Abu Nassim, ricercato dall’Italia per terrorismo e che ha vissuto a lungo a Milano. L’obiettivo è raggrupparsi per rialzare la testa in Libia.

Le bandiere nere mi hanno dato il benvenuto a Sirte, il 18 agosto, con l’esplosione di due macchine minate guidate da kamikaze sulla strada principale per entrare in città. La scena è drammatica con feriti che piangono, auto carbonizzate, pozze di sangue e ambulanze a sirene spiegate. Un camion ribaltato sta bruciando in mezzo alla strada. Mezzi distrutti sono sparsi dappertutto. Della macchina bomba resta solo un groviglio di lamiere fumanti.

Un combattente tarchiato con piccole ferite su tutto il busto si lamenta mentre lo disinfettano. Un altro cerca di pulirsi dal sangue. Un infermiere mostra un sacchetto di plastica dove ha raccolto alcuni resti dei corpi finiti in mille pezzi. 

Le bandiere nere sono riuscite a colpire gli assedianti dove non se l’aspettavano, infiltrandosi probabilmente dal deserto a sud.  

Prima dell’ultimo attacco da tutti i fronti gli uomini dell’operazione Bunian al Marsus per la liberazione di Sirte hanno aperto per 48 ore una via di fuga sicura per i civili che vogliono andarsene. I filmati dei droni americani mostrano donne e bambini, le famiglie dei miliziani jihadisti, scesi in strada come scudi umani. Su due container piazzati di traverso sul lungomare sventolano delle bandiere bianche. I civili devono avvicinarsi a piedi alzando i vestiti per fare vedere che non hanno giubbotti esplosivi. Un piccolo drone radiocomandato svolazza lanciando volantini con le istruzioni per la fuga. Un giovane combattente scruta con il binocolo la terra di nessuno, al riparo dai cecchini, ma non si presenta anima viva al varco umanitario. L’ultima battaglia sarà senza quartiere. Per la prima volta è destinata a cadere una “capitale” dello Stato islamico grazie a una guerra combattuta dai libici, che stanno vincendo anche per noi. 


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