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Reportage
31 agosto 2017 - Primo Piano - Siria - Corriere del Ticino
A Raqqa fra mortai e corpi dilaniati
RAQQA - Il pauroso fragore metallico dell’improvvisa esplosione ti fa scorrere un brivido lungo la schiena, come una scossa elettrica. Un assordante colpo di mortaio dei seguaci del Califfo è piombato vicino alla postazione ricavata dentro una palazzo semi distrutto di Raqqa. Il comandante dei combattenti curdi, che stringono l’assedio attorno alla storica capitale dello Stato islamico in Siria, urla degli ordini. Tutti prendono le armi per prepararsi all’arrivo di altre granate anche se il nemico è invisibile a qualche centinaio di metri annidato fra i ruderi della città vecchia. Noi giornalisti cerchiamo il posto più sicuro dove ripararci: un bagno dell’appartamento abbandonato senza finestra con le pareti ancora intatte che fanno da bunker.
Il mortaio non cercava a caso di colpire la nostra postazione, uno dei punti di comando in prima linea da dove vengono richiesti e indirizzati gli attacchi aerei alleati. Per fiaccare la strenua resistenza delle bandiere nere, sotto assedio da giugno, Raqqa è sempre più martellata dai bombardamenti dal cielo. Nuvole e colonne di fumo nero, grigio o color sabbia che si alzano verso il cielo dopo il fischio mortale delle bombe a guida laser. Nella settimana dal 13 al 20 agosto sono stati circa 200. Lo Stato islamico denuncia sanguinose perdite di civili, ma nessuno è in grado di controllare. L’unica certezza è che 224mila persone sono già scappate da Raqqa sfollando nei campi profughi. Almeno 25mila civili sono intrappolate nel 40% della città sulla riva dell’Eufrate ancora in mano ai combattenti jihadisti. Almeno 3500 compresi molti volontari stranieri soprattutto francesi, ceceni ed estremisti con gli occhi a mandorla della provincia cinese di Xinjiang comandati da Abu Hamza. Un veterano tunisino della guerra santa che ha preso in moglie Sonia Khediri, la ragazza appena maggiorenne partita per la Siria dalla città italiana di Treviso. “Usano i civili come scudi umani” racconta Mohammed con la tunica araba lacera e sporca appena scappato dalla città vecchia assediata. Un’infermiera curda in mimetica lo sta medicando delle ferite subite durante la fuga nel pronto soccorso avanzato ricavato in un negozio. “Sono scappato attraverso i tunnel scavati dai militanti dello Stato islamico per poi correre verso le linee curde sventolando la bandiera bianca” spiega Mohammed. Solo il nome per timore di rappresaglie sulla sua famiglia, che porterà via appena possibile dall’infernale assedio.
La battaglia di Raqqa è condotta da 30mila uomini armati dagli Usa dalle Forze democratiche siriane, che sono capeggiate dai curdi del Ypg (Unità di difesa popolare.) Nel nord est del paese hanno cacciato il regime di Damasco creando, di fatto, una regione autonoma chiamata Rojawa. Sulla mimetica di molti giovani in prima linea spicca la stellina rossa ed il faccione di “Apo” Ocalan, il leader curdo, da queste parti eroe nazionale, che sconta l’ergastolo in Turchia come terrorista. Ogni unità ha un I pad per controllare sulle mappe satellitari aggiornate dai droni Usa le posizioni dello Stato islamico.
Il comandante Lawand Khabat, barbetta, mimetica e fucile di precisione è annidato con un pugno di uomini in un’abitazione diroccata del fronte orientale. Sul tetto fissa l’obiettivo nel mirino telescopico e tira con calma il grilletto. Dai buchi scavati nel parapetto una ragazza con i capelli raccolti in una coda, un giovanissimo combattente e altri miliziani curdi diventati uomini troppo presto sparano con i kalashnikov contro le postazioni delle bandiere nere. Takuschin, 22 anni, volto acqua e sapone, ha pochi dubbi: “Non combatto solo per difendere il mio popolo e cacciare dalla mia terra Daesh (lo Stato islamico), ma anche per voi europei minacciati dal terrorismo”. Dopo la strage di Barcellona sono parole che pesano ancora di più.
Il comandate Khabat ci porta ancora più avanti. In fila indiana con gli occhi bene aperti per evitare le trappole esplosive bisogna scattare di corsa ad ogni incrocio. Raqqa è una città fantasma. Gli spettri sono le case dilaniate dalla battaglia e le carcasse accartocciate di autobus e automobili. “Sur, sur”, che vuol dire “muro” ripete il comandante ragazzino indicandolo da un buco nella parete di una postazione ancora più avanzata. Oltre due barriere di sabbia in mezzo alla strada si alza la linea di estrema difesa jihadista. Le antiche mura di colore giallognolo erette ai tempi di Rafiqah, il califfo che stabilì la sua capitale in questa città dal 796 all’809. I curdi l’hanno sfondato in più punti, ma i combattimenti per andare avanti sono durissimi.
Nella battaglia di Raqqa ogni tanto ti investe l’odore dolciastro della morte, che abbiamo imparato a riconoscere a Sirte e Mosul, le “capitali” delle bandiere nere in Libia ed Iraq liberate dopo mesi di sanguinosi scontri. Il cadavere di un miliziano jihadista con ancora addosso le cartucciere è abbandonato nel corridoio d’ingresso di un’abitazione bucherellata dalle raffiche. Quasi inciampiamo su una mano rattrappita che spunta da una coltre di sabbia in mezzo alla strada. Un gippone blindato arriva a tutta velocità. Dal retro spuntano le gambe dilaniate di due combattenti saltati su una mina. E nessuno sembra far caso all’orrore.
Sul fronte occidentale dell’assedio le Forze democratiche siriane avanzano casa per casa. Al fianco dei curdi combattono decine di volontari occidentali. Bruce, barbetta rossiccia, occhi azzurri e mitra in pugno ha la stella rossa del Ypg sull’uniforme mimetica. Qualche passo più indietro avanza guardingo fra le macerie della prima linea un altro volontario occidentale. Mefisto calato sul volto per non farsi riconoscere è un inglese, che si presenta come Rony. In prima linea ci sono anche due italiani. Uno è stato ferito ad un braccio, ma non demorde. Tutti ripetono di “combattere lo Stato islamico, minaccia per l’umanità e per i curdi che hanno diritto ad una patria”. Molti sono “internazionalisti” legati all’anarchia e agli ideali socialisti del Ypg, ma non mancano ex militari americani ed europei tutt’altro di sinistra, che vogliono vendicarsi degli attentati delle bandiere nere a casa loro.
Sul fronte occidentale i piloni delle luci dello stadio di Raqqa dove i seguaci del Califfo organizzavano le decapitazioni pubbliche si vedono bene. In prima linea è schierato anche un reparto cristiano comandato da Abud, uno sbarbatello che è già un veterano. Al polso ha un braccialetto di stoffa con un piccolo crocefisso. Uno dei suoi uomini tira su la manica della mimetica per mostrare orgoglioso la croce tatuata sul braccio. “A Raqqa c’erano delle chiese che sono state distrutte o trasformate in deposti di munizioni - spiega il comandante ragazzino - Alcune famiglie cristiane sono rimaste in città costrette a convertirsi all’Islam con la forza. Vogliamo salvarle e liberarle”. A fianco del ricovero a ridosso del fronte dove dormono tuona un mortaio di grosso calibro di una base avanzata americana, che martella con precisione le postazioni del Califfato in città.
Come i cristiani, un gruppo di sole donne imbraccia le armi per liberare le loro sorelle ed i bambini yazidi nelle grinfie dei mujaheddin dello Stato islamico. “Nella battaglia di Raqqa siamo i loro angeli custodi, che li salveranno” giura Daniz Shangal. Giubba mimetica, capelli corvini raccolti in una treccia, rigorosamente senza velo, è la comandante dell’unità che arriva da Sinjar, la capitale yazida in Iraq spazzata via dalle bandiere nere nel 2014. Gli yazidi non sono né musulmani, né cristiani. Le orde del Califfato li hanno massacrati bollandoli come “adoratori del diavolo”. Almeno 3000 donne e bambini yazidi sono ancora ostaggio come schiave del sesso o addestrati a diventare baby jihadisti. Le 15 ragazze in armi sono addestrate a combattere fino all’ultimo proiettile e a non farsi prendere vive. Shangal è convinta: “Il nostro popolo ha subito un genocidio, ma noi rappresentiamo un simbolo di riscatto in questa battaglia che resterà nella storia come la fine dello Stato islamico”.
Fausto Biloslavo \"HO SERVITO IL CALIFFO, OGGI MI PENTO\"
KOBANE (Siria) - Barbone nero, capelli lunghi d’ordinanza dei seguaci del Califfo e tunica araba spunta da un buio corridoio della prigione segreta dell’antiterrorismo dei curdi a Kobane, nel nord est della Siria. Abu Mussa, 34 anni, tunisino, arruolato nello Stato islamico, arriva scortato da due nerboruti agenti in borghese. Incapucciato per non fargli vedere il tragitto dalla cella si inalbera quando sente lo scatto della macchina fotografica ed in inglese sbraita: “Aspetta, aspetta”. Poi si calma e comincia a raccontare con molte omissioni la sua storia. Non si capisce se è un tagliagole pentito dello Stato islamico o un seguace delle bandiere nere che punta solo a salvarsi il collo. Quando il cerchio dell’assedio di Raqqa si è chiuso attorno alla capitale storica del Califfato ha deciso di scappare con la famiglia seguendo le istruzioni riportate sui volantini lanciati dal cielo dagli americani per arrendersi.
Si commuove come un bambino quando gli mostriamo le foto della moglie tunisina segregata in un campo profughi con i figli. “Questo con la madre è Daud, il mio bambino che ha un anno. Mi mancano tanto” dice in italiano, che sostiene di aver imparato alla scuola alberghiera a Tunisi prima di aderire alla guerra santa.
Come è iniziata l’adesione al Califfato?
“Quattro anni fa sono partito dalla Tunisia per combattere e liberare il popolo siriano. E’ venuta anche mia moglie ed i nostri bambini sono nati in Siria. Ero stato attirato dall’Isis perché promettevano il vero Islam, ma una volta arrivato mi sono ben presto reso conto che era una trappola”.
In che senso?
“Hanno cominciato ad uccidere i civili e chiunque venisse sospettato di opporsi. La tortura era sistematica e la popolazione, a Raqqa, è stata usata come scudo umano”.
Però anche tu eri un mujahed che sventolava la bandiera nera del Califfato….
“Non ho avuto neppure il tempo di combattere. Guarda queste cicatrici… sono stato ferito alle gambe da un missile che ha centrato il mezzo su cui viaggiavo. Tutti gli altri sono morti. Dopo essermi ripreso ho fatto solo l’infermiere (una versione comune a molti mujaheddin prigionieri ndr)”.
Com’è la situazione a Raqqa sotto assedio?
“Miserevole. Il morale è basso e aumentano le difficoltà per reperire acqua e viveri. La sopravvivenza dei civili è a rischio”.
Hai incontrato i volontari europei della guerra santa?
“C’erano molti francesi. E mio cugino, Abu Hamza, è il numero due delle difese dell’Isis a Raqqa. Ha sposato una giovane di origine tunisina giunta dall’Italia (Sonia Khediri partita diciottenne da Verona nda). Lui non demorde e mi ha detto: “Non mi arrenderò mai. Se devo morire per Allah anche mia moglie seguirà la stessa sorte”.
Sei pentito di aver aderito all’Isis?
“Ho fatto un grave errore, ma tutti possono cambiare. Non sono un criminale. Avevano ragione i miei cugini a Verona, che mi dicevano di andarmene da Raqqa e tornare a casa”.
Molti giovani continuano a combattere per il Califfato e si sono fatti uccidere in Libia, Iraq e Siria….
“Ai giovani europei e di altri paesi dico di non ascoltare le sirene dell’Isis. Lo Stato islamico non è quello che vi raccontano. Si sono macchiati di crimini orribili”.
Cosa pensi dell’offensiva terroristica in Europa legata alle sconfitte sul terreno in Siria e Iraq?
“Gli attentati in Francia e Belgio sono stati una pazzia. La reazione non si è fatta attendere con i pesanti bombardamenti alleati contro l’Isis”.
Lo Stato islamico è alla corde?
Abu Mussa prima abbozza un sorrisetto e poi risponde “E’ l’inizio della fine”.

 

video
10 settembre 2013 | Tg5 | reportage
L'inferno di Jobar alle porte di Damasco
Alle porte della capitale siriana il nostro inviato racconta il sobborgo ridotto a un cumulo di macerie, nella zona dove sono state usate le armi chimiche.

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09 settembre 2013 | Tg5 | reportage
La battaglia di Maalula perla cristiana
Fausto Biloslavo, appena arrivato in Siria si trova al centro degli scontri tra governanti e ribelli. Il video terribile ed il racconto della battaglia

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25 gennaio 2016 | Tg5 | reportage
In Siria con i russi
La guerra dei russi in Siria dura da 4 mesi. I piloti di Mosca hanno già compiuto 5700 missioni bombardando diecimila obiettivi. In queste immagini si vedono le bombe da 500 o 1000 chili sganciate sui bersagli che colpiscono l’obiettivo. Un carro armato della bandiere nere cerca di dileguarsi, ma viene centrato in pieno e prende fuoco. In Siria sono impegnati circa 4mila militari russi. La base aerea a 30 chilometri dalla città siriana di Latakia è sorvolata dagli elicotteri per evitare sorprese. Le bombe vengono agganciate sotto le ali a ritmo continuo. I piloti non parlano con i giornalisti, ma si fanno filmare con la visiera del casco abbassato per evitare rappresaglie dei terroristi. Il generale Igor Konashenkov parla chiaro: “Abbiamo strappato i denti ai terroristi infliggendo pesanti perdite - sostiene - Adesso dobbiamo compiere il prossimo passo: spezzare le reni alla bestia”. Per la guerra in Siria i russi hanno mobilitato una dozzina di navi come il cacciatorpediniere “Vice ammiraglio Kulakov”. Una dimostrazione di forza in appoggio all’offensiva aerea, che serve a scoraggiare potenziali interferenze occidentali. La nave da guerra garantisce la sicurezza del porto di Tartus, base di appoggio fin dai tempi dell’Urss. I soldati russi ci scortano nell’entroterra dilaniato dai combattimenti. Negli ultimi tre anni la cittadina era una roccaforte del Fronte al Nusra, la costola siriana di Al Qaida. Le bombe russe hanno permesso ai governativi, che stavano perdendo, di riguadagnare terreno. Sul fronte siriano i militari di Mosca usano il blindato italiano Lince. Lo stesso dei nostri soldati in missione in Afghanistan.

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radio

02 luglio 2015 | Radio24 | intervento
Siria
La famiglia jihadista
"Cosa gradita per i fedeli!!! Dio è grande! Due dei mujaheddin hanno assassinato i fumettisti, quelli che hanno offeso il Profeta dell'Islam, in Francia. Preghiamo Dio di salvarli”. E’ uno dei messaggi intercettati sulla strage di Charlie Hebdo scritto da Maria Giulia Sergio arruolata in Siria nel Califfato. Da ieri, la prima Lady Jihad italiana, è ricercata per il reato di associazione con finalità di terrorismo internazionale. La procura di Milano ha richiesto dieci mandati di cattura per sgominare una cellula “familiare” dello Stato islamico sotto indagine da ottobre, come ha scritto ieri il Giornale, quando Maria Giulia è arrivata in Siria. Il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli ha spiegato, che si tratta della “prima indagine sullo Stato Islamico in Italia, tra le prime in Europa”.

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23 gennaio 2014 | Radio Città Futura | intervento
Siria
La guerra continua


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02 dicembre 2015 | Radio uno Tra poco in edicola | intervento
Siria
Tensione fra Turchia e Russia
In collegamento con Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa. In studio conduce Stefano Mensurati.

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