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Artcolo
26 febbraio 2020 - Cultura - Italia - Panorama
Italian graffiti L’ex maledetto che mette poesia in città
L’ultimo ritratto è di Charles Baudelaire con uno dei suoi versi in prosa: “Di vino, di poesia, di virtù: come vi pare. Ma ubriacatevi”. La figura del poeta maledetto francese risalta sulla parete esterna dell’ Osteria, un rinomato ritrovo culinario di Udine. L’autore, Simone Mestroni, è un poeta artistico di strada dalla giovinezza travagliata, che disegna i grandi della letteratura accompagnati dalle loro parole o versi sui muri, saracinesche di attività commerciali, facciate di alberghi o municipi. Un caso unico in Italia dove domina la sottocultura dei writers o le trovate pubblicitarie di Bansky. Il giovane artista, ancora poco conosciuto sta emergendo dalla sua terra, il Friuli. “Il progetto è partito due anni fa, come risposta nei confronti di una società a mio avviso troppo nichilista, fatta di idiozie televisive e di giovani che si spengono inseguendo la mediocrità. L’ho chiamato Città Della Poesia \\\"una resistenza culturale”” spiega Mestroni, 31 anni. Occhi fra il grigio e l’azzurro, faccia da bravo ragazzo, qualche tatuaggio dei tempi da ultrà allo stadio e dell’estremismo politico, il poeta dei muri ha un obiettivo preciso con le sue opere. “Intercettare i passanti, la gente per strada, che quotidianamente non legge o non frequenta librerie e centri d’istruzione - spiega Mestroni a Panorama -  Offrire uno stimolo e un approfondimento letterario”. E quando si fermano, magari solo per curiosità, ad osservare Celine, Pasolini o Prevert, che spuntano da una serranda ha raggiunto l’obiettivo.
Ogni tanto Mestroni si cimenta con i versi sulle panchine del capoluogo giuliano utilizzate come leggio: “Le mie poesie fra le vie ricoprono centro e periferie / e aggirando le librerie / leggere si posano dove i passanti si riposano”. Oppure per abbellire le carcasse di auto abbandonate scrivendo sulla portiera “vetri rotti cuori infranti / se lo chiedono i passanti / val la pena di fermarsi o andare avanti?”.
L’originalità del giovane artista friulano sono i grandi personaggi della cultura trasversali e senza tempo. L’esordio è stato di quelli tosti con Louis-Ferdinand Céline tratteggiato sulla saracinesca di un’edicola nella centralissima piazza San Giacomo di Udine. “E’ più difficile rinunciare all’amore che alla vita” sono le parole del controverso scrittore sotto i nomi delle testate locali, che spiccano sul chiosco dei giornali. Jacques Prevert spunta sornione con la sigaretta all’angolo della bocca su una serranda grigia di un ortofrutta. Tutti i disegni sono realizzati con pennello e colori per esterno, niente bombolette spray come i writers, i graffittari, che sono alla moda, ma il poeta di strada considera “un mondo distantissimo da me. Non imbratto i muri”.
Mestroni ha lasciato la scuola a 16 anni e si è diplomato alla serali a 25 come operatore socio sanitario, lavoro che non farà mai. Per mantenersi si è adattato a tutto dall’imbianchino, allo spazzacamino fino al porta pizze. L’artista friulano è nato e cresciuto nel “Bronx”, come veniva definito il quartiere disagiato “Di Giusto” a Udine. “Pensavo che fosse un fortino da difendere - spiega Mestroni - Ogni giorno ero pronto a dare battaglia”. Da adolescente si tuffa nel mondo degli ultrà della curva nord dell’Udinese “fonte di innumerevoli guai” ammette, compresi divieti di accedere allo stadio e arresti. Dagli ultrà alla militanza politica estrema con Forza nuova, il filo conduttore è lo stesso.
Poi la svolta abbracciando la cultura con la “Città della poesia”. Il padre Stefano, camionista, che non  sapeva neppure chi fosse Céline, racconta in un toccante video, parte di un documentario sul giovane artista, la conversione del figlio. “Questo è il libro delle disgrazie” e mostra i ritagli di giornale degli scontri allo stadio e dei tempi dell’estrema destra. Poi tira fuori il faldone della Città della poesia, “della felicità, del vero volto di mio figlio, che mi fa piangere di contentezza non di disperazione come prima”.
Mestroni si sente sempre “un alternativo”, ma non più come ai tempi della politica e delle violenze. “Rimango identitario, ma spostato su principi liberali - osserva Mestroni - Seguo molto Nicola Porro e la sua “zuppa” quotidiana di commento ai fatti”.
Non è un caso che nella scelta dei poeti o scrittori se ne freghi della loro biografia politica convinto che “la scoperta poetica letteraria vada affrontata senza pregiudizi”.  Per questo motivo nel  suo repertorio spiccano sia Filippo Tommaso Marinetti che Pier Paolo Pasolini, ma entrambi hanno provocato reazioni assurde. A Brescia mentre tratteggiava su una saracinesca il fondatore del movimento futurista sullo sfondo del Tricolore qualcuno ha chiamato la polizia denunciando che “stavo facendo il disegno di un fascista”. Pasolini, dipinto di rosso su una cabina dell’Enel, “è la risposta per dimostrare come Città della poesia non ha tendenze ideologiche, ma mira soltanto alla divulgazione culturale”. A chi vede l’uomo nero dappertutto, non è piaciuto e hanno deturpato Pasolini con scritte antifasciste.
Non solo edicolanti, negozianti, ristoratori gli hanno dato fiducia, ma pure le amministrazioni comunali soprattutto friulane compresa Ruda dove Pasolini aveva scritto una poesia. A Cividale del Friuli ha disegnato Nelson Mandela e in giugno dipingerà l’intera facciata del municipio di Santa Maria la Longa con Giuseppe Ungaretti e il suo famoso “m’illumino d’immenso” scritto in questa cittadina nel gennaio 1917.
Anche la televisione austriaca, ovviamente prima di quella italiana, si è accorto del poeta delle saracinesche. A Klagenfurt ha disegnato una poetessa locale sulla facciata di un albergo di 4 piani, che ospita ogni anno una giornata letteraria.
In quattro giorni Mestroni riesce a finire un lavoro di medie dimensioni, da serranda, che costa appena 500 €. Adesso lo stanno cercando pure dalla Slovenia, ma vorrebbe farsi conoscere nel resto d’Italia. Sempre con lo stesso tarlo in testa: “Sono un missionario della letteratura e della poesia che opera attraverso i murales”.
Fausto Biloslavo
[continua]

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24 novembre 2015 | Rai 1 Storie vere | reportage
Terrorismo in Europa
Dopo gli attacchi di Parigi cosa dobbiamo fare per estirpare la minaccia in Siria, Iraq e a casa nostra

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12 maggio 2020 | Tg5 | reportage
L'infermiera sopravvissuta al virus
L’infermiera ha contratto il virus da un paziente anziano nell’ospedale Maggiore di Trieste A casa non riusciva più a respirare ed è stata trasportata d’urgenza in ospedale Il figlio, soldato della Nato, era rimasto bloccato sul fronte baltico dall’emergenza virus con l’appartamento pieno di medicine l’incubo del contagio non l’abbandonerà mai Due mesi dopo il contagio Svetlana è negativa al virus ma ancora debole e chiusa in casa

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14 maggio 2020 | Tg5 | reportage
Trieste, Lampedusa del Nord Est
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il gruppetto è seduto sul bordo della strada asfaltata. Tutti maschi dai vent’anni in su, laceri, sporchi e inzuppati di pioggia sembrano sfiniti, ma chiedono subito “dov’è Trieste?”. Un chilometro più indietro passa il confine con la Slovenia. I migranti illegali sono appena arrivati, dopo giorni di marcia lungo la rotta balcanica. Non sembra il Carso triestino, ma la Bosnia nord occidentale da dove partono per arrivare a piedi in Italia. Scarpe di ginnastica, tute e qualche piumino non hanno neanche uno zainetto. Il più giovane è il capetto della decina di afghani, che abbiamo intercettato prima della polizia. Uno indossa una divisa mimetica probabilmente bosniaca, un altro ha un barbone e sguardo da talebano e la principale preoccupazione è “di non venire deportati” ovvero rimandati indietro. Non sanno che la Slovenia, causa virus, ha sospeso i respingimenti dall’Italia. Di nuovo in marcia i migranti tirano un sospiro di sollievo quando vedono un cartello stradale che indica Trieste. Il capetto alza la mano in segno di vittoria urlando da dove viene: “Afghanistan, Baghlan”, una provincia a nord di Kabul. Il 12 maggio sono arrivati in 160 in poche ore, in gran parte afghani e pachistani, il picco giornaliero dall’inizio dell’anno. La riapertura della rotta balcanica sul fronte del Nord Est è iniziata a fine aprile, in vista della fase 2 dell’emergenza virus. A Trieste sono stati rintracciati una media di 40 migranti al giorno. In Bosnia sarebbero in 7500 pronti a partire verso l’Italia. Il gruppetto di afghani viene preso in carico dai militari del reggimento Piemonte Cavalleria schierato sul confine con un centinaio di uomini per l’emergenza virus. Più avanti sullo stradone di ingresso in città, da dove si vede il capoluogo giuliano, la polizia sta intercettando altri migranti. Le volanti con il lampeggiante acceso “scortano” la colonna che si sta ingrossando con decine di giovani stanchi e affamati. Grazie ad un altoparlante viene spiegato in inglese di stare calmi e dirigersi verso il punto di raccolta sul ciglio della strada in attesa degli autobus per portarli via. Gli agenti con le mascherine controllano per prima cosa con i termometri a distanza la temperatura dei clandestini. Poi li perquisiscono uno ad uno e alla fine distribuiscono le mascherine ai migranti. Alla fine li fanno salire sugli autobus dell’azienda comunale dei trasporti cercando di non riempirli troppo per evitare focolai di contagio. “No virus, no virus” sostiene Rahibullah Sadiqi alzando i pollici verso l’alto in segno di vittoria. L’afghano è partito un anno fa dal suo paese e ha camminato per “dodici giorni dalla Bosnia, attraverso la Croazia e la Slovenia fino all’Italia”. Seduto per terra si è levato le scarpe e mostra i piedi doloranti. “I croati mi hanno rimandato indietro nove volte, ma adesso non c’era polizia e siamo passati tutti” spiega sorridendo dopo aver concluso “il gioco”, come i clandestini chiamano l’ultimo tratto della rotta balcanica. “Abbiamo registrato un crollo degli arrivi in marzo e per gran parte di aprile. Poi un’impennata alla fine dello scorso mese fino a metà maggio. L’impressione è che per i paesi della rotta balcanica nello stesso periodo sia avvenuta la fine del lockdown migratorio. In pratica hanno aperto i rubinetti per scaricare il peso dei flussi sull’Italia e sul Friuli-Venezia Giulia in particolare creando una situazione ingestibile anche dal punto di vista sanitario. E’ inaccettabile” spiega l'assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, che punta il dito contro la Slovenia. Lorenzo Tamaro, responsabile provinciale del Sindacato autonomo di polizia, denuncia “la carenza d’organico davanti all’emergenza dell’arrivo in massa di immigrati clandestini. Rinnoviamo l’appello per l’invio di uomini in rinforzo alla Polizia di frontiera”. In aprile circa il 30% dei migranti che stazionavano in Serbia è entrato in Bosnia grazie alla crisi pandemica, che ha distolto uomini ed energie dal controllo dei confini. Nella Bosnia occidentale non ci sono più i campi di raccolta, ma i migranti bivaccano nei boschi e passano più facilmente in Croazia dove la polizia ha dovuto gestire l’emergenza virus e pure un terremoto. Sul Carso anche l’esercito impegnato nell’operazione Strade sicure fa il possibile per tamponare l’arrivo dei migranti intercettai pure con i droni. A Fernetti sul valico con la Slovenia hanno montato un grosso tendone mimetico dove vengono portati i nuovi arrivati per i controlli sanitari. Il personale del 118 entra con le protezioni anti virus proprio per controllare che nessuno mostri i sintomi, come febbre e tosse, di un possibile contagio. Il Sap è preoccupato per l’emergenza sanitaria: “Non abbiamo strutture idonee ad accogliere un numero così elevato di persone. Servono più ambienti per poter isolare “casi sospetti” e non mettere a rischio contagio gli operatori di Polizia. Non siamo nemmeno adeguatamente muniti di mezzi per il trasporto dei migranti con le separazioni previste dall’emergenza virus”. Gli agenti impegnati sul terreno non sono autorizzati a parlare, ma a denti stretti ammettono: “Se va avanti così, in vista della bella stagione, la rotta balcanica rischia di esplodere. Saremo travolti dai migranti”. E Trieste potrebbe trasformarsi nella Lampedusa del Nord Est.

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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