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Reportage
21 agosto 2008 - Prima - Afghanistan - Il Foglio
Nella gola dei talebani
GARMSIR – Il sergente maggiore Steven Ranga ha un M 16 tatuato sul braccio, il classico fucile mitragliatore dei soldati americani fin dai tempi del Vietnam. La canna è piantata a terra e sul calcio è infilato un elmetto. Il tatuaggio serve a ricordare i marines caduti in combattimento. Al sergente Ranga non da fastidio la curiosità dei giornalisti, ma in questo momento ha altri problemi per la testa. L’intelligence ha segnalato la possibilità di un’imboscata alla 2° squadra del 4° plotone, che sta per uscire in pattuglia. E noi con loro intruppati nei marines della compagnia Alfa ad Apache nord. Uno degli avamposti sperduti nel distretto di Garmsir, provincia afghana di Helmand, fino a giugno una roccaforte talebana.
I marines si stanno preparando, controllandosi l’uno con l’altro l’equipaggiamento: fucili mitragliatori, munizioni, batterie per la radio, razzi, acqua. Li guardo in faccia mentre si accendono una sigaretta prima della missione o scherzano con qualche battutaccia. Tutti giovanissimi, ma pronti a combattere. Qualcuno sembra un liceale, un altro ha qualche brufolo ricordo dell’adolescenza ed altri ancora sfoggiano muscoli da giovane palestrato. Molti sono sbarbatelli. Altrimenti si radono ogni giorno anche in prima linea. I capelli li tengono rigorosamente a spazzola e tutti hanno negli occhi lo sguardo duro di chi ha già vissuto il suo battesimo del fuoco. L’età media nelle pattuglie della compagnia Alfa è 21 anni.
“Ci hanno segnalato una possibile Ied (una trappola esplosiva), ma non preoccupatevi. Con i marines siete sempre al sicuro” sostiene il capitano Sean Dynan. Comanda l’unità più a sud del 24imo Corpo di spedizione delle truppe da sbarco americane. Non resta che farsi il segno della croce e mettersi in marcia. Alle cinque della sera la pattuglia si muove su una strada sabbiosa, che porta verso il Pakistan. Se non ci fosse una guerra questa fetta di Afghanistan sarebbe un bel posto. I canali di irrigazione costruiti negli anni cinquanta dagli americani sfruttano le acque del fiume Helmand per strappare la terra al deserto.
I marines avanzano su due file ai lati della strada. Separati qualche decina di metri l’uno dall’altro per non saltare in aria tutti assieme. Ci inoltriamo ben presto nei campi per sperare di evitare le trappole esplosive. La terra è spaccata dal sole, ma dalla crepe spuntano le foglie verdi delle pannocchie. Resti di papaveri rinsecchiti dimostrano che i contadini hanno già raccolto l’oppio. In alcuni tratti i marines si infilano nel verde fino alle ginocchia. Con il sole che tramonta all’orizzonte ed il sudore che cola sotto l’elmetto sembra quasi una scena da vecchio film sul Vietnam. Manca solo che salti fuori “Charlie”, il nemico, che in Afghanistan i marines chiamano “bad guys”, cattivi ragazzi.
Assieme agli americani sono usciti in pattuglia quattro poliziotti afghani. Sembrano reclute dell’armata Brancaleone. Uno ha un panzone, un altro è troppo giovane ed il terzo potrebbe venir scambiato per un talebano. Nessuno possiede un elmetto o un giubbotto antiproiettile. Il comandante con barba islamica d’ordinanza è l’unico che cerca di salvare le apparenze. Il sospetto è che quando se ne andranno i marines la polizia locale si scioglierà come neve al sole.
Una normalissima Toyota Corolla bianca si avvicina sobbalzando sulle buche della strada che costeggia un canale. I marines gridano da lontano “berta za”, “torna indietro”, con il dito sul grilletto. Qualsiasi automobile potrebbe essere minata ed avere al volante un terrorista suicida proveniente dal Pakistan.
Ci stiamo inoltrando nella terra di nessuno e la pattuglia è sempre più guardinga. Alla fine arriviamo ad una piccola e misera moschea in terra e paglia. All’esterno un anziano pasthun con il barbone grigio ed il turbante bianco prega imperturbabile verso la Mecca. E’ il vice imam, perché quello ufficiale ha preferito dileguarsi dopo gli aspri combattimenti dei marines durati fino a giugno. Le pattuglie che battono di continuo il territorio non servono solo a setacciare la zona. Gli americani contattano la popolazione offrendo aiuti in cambio di informazioni o almeno non belligeranza. Il tenente Steven Pechtel guida l’unità e spiega che gli americani hanno già “risarcito 600 persone per i danni subiti alle loro case durante i combattimenti. Ora cerchiamo di capire quali sono le necessità primarie: pozzi, piccole cliniche, scuole”. Per una finestra distrutta dallo spostamento d’aria di una bomba vengono pagati 1200 afghani, circa 20 dollari. Il valore di una casa in terra e paglia, non più agibile, è di 100mila afghani, ovvero 2000 dollari. Per i civili morti durante gli scontri esiste un prezzo del sangue deciso di volta in volta dal comandante del battaglione.
Il distretto di Garmsir non è mai stato controllato dal governo del presidente afghano Hamid Karzai. Un miscuglio di fondamentalisti in armi e signori della droga lo ha reso uno dei posti più pericolosi dell’Afghanistan. Al loro fianco una ciurmaglia di combattenti arabi, uzbechi e ceceni, legati ad Al Qaida, controlla ancora la parte meridonale del distretto confinante con il Pakistan. Oltre la frontiera, che esiste solo sulla carta, c’è la strada che porta a Quetta. Il capoluogo del Baluchistan diventato una base dei talebani. Ogni tanto viene segnalato nei dintorni di Quetta mullah Omar, il capo guercio degli studenti guerrieri.
Garmsir era famoso fra gli arabi fin dal diciannovesimo secolo, per la caccia agli uccelli pregiati. Osama bin Laden, durante l’emirato talebano, ne aveva fatto una base di rifornimento per armi e carburante provenienti dal Pakistan. Negli ultimi anni il capoccia della zona era mullah Dadullah, mandante del rapimento del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo nascosto e liberato da queste parti. Dopo l’eliminazione di Dadullah lo scettro del comando è passato a mullah Mirwais finito nel mirino di un’azione mirata della Nato lo scorso anno. Il nuovo capo è mullah Abdullah sulla quarantina. Comandante di spicco dei talebani quando erano al potere è un religioso integralista venuto su in una scuola coranica di Quetta.
Il livello di istruzione a Garmsir è quasi zero, se si escludone le madrasse. Il principale mezzo di sostentamento della popolazione è l’oppio. Il distretto è famoso per gli esperti nella coltivazione del papavero che vendono i loro dotti consigli in tutta la provincia di Helmand e Kandahar. Purtroppo i marines non hanno ordini per distruggere le coltivazioni o sopprimere il traffico di droga verso il Pakistan. La grande strada oltre il confine è uno snodo dell’oppio raffinato in eroina sia verso Quetta, che in direzione dell’Iran per poi arrivare in Europa.
I marines cercano di dialogare con la popolazione locale, ma hanno bisogno di interpreti fidati che conducono una vita dura e difficile. Uno di questi è Mohammed. Non si tratta del suo vero nome, ma serve per non identificarlo. “Tre miei amici che facevano lo stesso lavoro sono stati sgozzati per rappresaglia dai talebani. Volevano prendere anche me. Non ero in casa e si sono vendicati uccidendo mio zio. In un’altra occasione hanno spezzato le braccia a mia moglie” racconta l’interprete pasthun che una volta faceva l’insegnante. Viene dall’Afghanistan orientale ed è stato con i corpi speciali Usa nella provincia di Paktika, sotto Kabul. Poi con gli olandesi in Uruzgan, roccaforte di mullah Omar. Questa volta l’Aegis, la società di sicurezza che fornisce gli interpreti afghani, aveva giurato che sarebbe rimasto nella grande base di Kandahar senza rischiare molto. Invece hanno sbattuto Mohammed in prima linea con i marines. “Ho 5 figli, che devo mantenere, ma da queste parti è veramente dura – sostiene l’interprete – Talvolta lavoriamo 12 ore al giorno. Mangiamo solo razioni di combattimento e l’acqua da bere è sempre calda”. Il problema vero è che secondo gli afghani i marines pagherebbero 3000 dollari ad interpete, ogni mese, alla società di sicurezza. “Noi rischiamo la vita e ci danno solo 700 dollari. Non è giusto” si sfoga Mohammed, una specie di portavoce sindacale dei traduttori in prima linea. Alle famiglie non dicono che sono nella provincia di Helmand per non preoccuparli troppo. Dei 12 interpreti che i marines avevano al loro arrivo oggi sarebbero rimasti solo 7. Gli altri, una volta tornati a casa in permesso, non sono più rientrati. Anche raggiungere le famiglie, ogni tanto, è un’impresa. “Con i marines usciamo sempre ed oramai conoscono le nostre facce – spiega un interprete più giovane – Se ci beccano su un taxi o un minibus ci tagliano la testa”.
Mohammed qualche volta va nel bazar di Lakhami vicino all’avamposto di Apache nord. “L’altro giorno ho comprato un’aranciata in lattina, bella fresca – racconta l’interprete – me l’hanno data di nascosto pregandomi di non tornare più. Altrimenti arrivano i talebani e accusano chi me l’ha venduta di collaborare con gli americani”. Gli interpreti dei marines hanno una sola speranza: “Un visto per l’America o l’Europa dove trasferirsi con la famiglia e ricominciare una nuova vita”.
Seguire le pattuglie con il sole che ti acceca, 45 gradi di caldo soffocante, giubbotto antiproiettile, elmetto e zaino pieno di bottigliette d’acqua è un’impresa. Gli stivali da deserto sollevano nuvole di sabbia. La polvere ti penetra ovunque e a fine giornata ti ritrovi con il naso tappato. La maglietta sotto il giubbotto, anche se è quella dei ciclisti che assorbe il sudore, diventa un cencio e ti si attacca alla pelle. Il sudore ti scende da sotto l’elmetto per tutto il corpo e lungo i calzoni.
Ai marines va ben peggio con 20-25 chilogrammi di armi ed equipaggiamento. Quando la colonna esce da Apache nord per la pattuglia delle 6 e 30 del mattino sembra composta da soldati di altri tempi. Il giubbotto anti proiettile, l’elmetto e le giberne per le munizioni sono una specie di armatura. In mimetica chiazzata da deserto appaiono tutti uguali. Li comanda il sergente William Bee. Lo chiamano “lucky man”, l’uomo fortunato, per essere scampato al tiro di un cecchino. Questa volta ci infiliamo nell’unica strada di Kalum Jagram, un villaggio misero e polveroso. Un pugno di case piatte a basse difese da muri di cinta ad altezza d’uomo. La terra è dei “feudatari” delle grandi famiglie pasthun che se ne stanno tranquilli nelle città. I contadini lavorano i loro campi per un tozzo di pane, come Amanullah. “Uno dei miei fratelli è morto durante i combattimenti, un altro è scappato in Iran. Sono rimasto da solo con i bambini” spiega l’afghano al sergente Bee. Il marine, per mostrarsi meno aggressivo, si è levato l’elmetto. I soldati americani si piazzano agli angoli delle case e l’operatore radio resta incollato al ricevitore. Ogni tanto segnala le notizie di una possibile trappola esplosiva o di movimenti sospetti riportate da altre pattuglie. Per fortuna a Kalum Jagram sta filando tutto liscio. I primi ad avvicinarsi ai marines sono i bambini. I soldati rompono la diffidenza con un caloroso “sangheè”, il saluto in pasthun. Allora si avvicina pure qualche adulto, che spesso ha una faccia da tagliagole talebano.
Wali Mohammed mi arriva alla piastra del giubbotto antiproiettile, ma non ha peli sulla lingua. “Abbiamo paura quando gli americani entrano nel villaggio con i loro mezzi. Guarda il muro della mia casa. L’ultima volta l’hanno mezzo abbattuto facendo manovra” denuncia il bambino. Poi arriva il padre. Il sergente scatta una foto del muro sbrecciato e prende pazientemente nota dei danni per un eventuale risarcimento. Mir Ahmad è un altro monello della polverosa via Pal afghana. Piccolo, sudicio, scalzo inveisce contro i talebani: “Hanno bruciato l’unica scuola della zona e adesso sono tutto il giorno in strada, ma vorrei studiare”.
Anche gli adulti si fanno coraggio e Alam Ghul, 25 anni, ma ne dimostra quaranta, si tira su i calzoni a sbuffo per farci vedere una ferita da arma da fuoco. “Stavo uscendo di casa quando sono passati gli americani. Hanno fatto cenno di fermarmi ed io ho tirato dritto. Mi hanno sparato ad una gamba” sostiene l’afghano. Anche lui vuole soldi. Il sergente Bee dubita fortemente che la storia sia vera, ma prende nota dell’ennesima denuncia. Alla fine i marines lasciano il villaggio distribuendo caramelle ai bambini.
Poco più a sud, la sera stessa, i talebani piazzano una micidiale trappola esplosiva. Tre mine russe una sopra l’altra sovrastate da due sbarre di ferro. Sotto quella che quasi affiora dal terreno, c’è del polistirolo con delle puntine. Al passaggio del primo mezzo dei marines le puntine avrebbero toccato la sbarra sottostante innescando il contatto di una batteria, pure interrata, che doveva far saltare le mine. Sere prima le vedette americane avevano notato qualcuno ai bordi della strada senza riuscire a prenderlo. La notte dopo è tornato a finire il lavoro. L’allarme scatta all’imbrunire e gli arteficeri di Apache nord, veterani dell’Iraq, escono in gran fretta. Qualche ora dopo un pauroso boato scuote la notte e fa calare il silenzio sull’avamposto. Per fortuna nessuno è saltato in aria. Gli arteficeri hanno trovato in tempo la trappola esplosiva facendola brillare.
Fausto Biloslavo
da Kabul ha collaborato Bahram Rahman
(3 continua)



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Di seguito pubblico il testo che ho ricevuto dai coraggiosi cineoperatori con l'elmetto: "Nei giorni dell’assedio di Bala Murghab il 5,6,7 e 8 agosto, con i fucilieri della Brigata Friuli erano presenti anche quattro militari Toni T. , Francesco S. , Giuseppe N. , Giuseppe C. , tutti provenienti dal 28° Reggimento “Pavia” di istanza Pesaro. È stato proprio il C.le Mag.Sc. Francesco S. a girare le immagini che vedete con una telecamera di fortuna, in condizioni difficili e con grande rischio personale.Infatti tra i compiti assolti dal 28° Reggimento di Pesaro c’è proprio la raccolta di informazioni e documentazioni video sulle operazioni di prima linea".

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