LIBRO E MOSTRA Gli occhi
della guerra
Gli occhi della guerra incrociati in tanti reportage in prima linea. Per questo gli occhi della guerra diventano il titolo di un libro fotografico. Un libro per raccontare, con immagini e sguardi fugaci, 25 anni di servizi dai fronti più caldi del mondo.
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REPORTAGE
Sotto le bombe
in Libano
con Hezbollah
NABATIEH - La strada a doppia corsia per Nabatieh, nel Sud del Libano, è deserta. Più ci avviciniamo alla città, roccaforte di Hezbollah, aumenta il presagio di morte e distruzione. Già in periferia il fumo grigio scaturito dai bombardamenti israeliani si alza da un edificio colpito al lato della strada. Ci passiamo in mezzo con un brivido che corre lungo la schiena. Sembra che non ci sia anima viva.
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I libri degli altri

imageHEZBOLLAH

autore: Gian Michalessin
editore: Boroli Editore
anno: 2006
pagine: 223
Marcia o muori è il motto della legione straniera, ma Gian Micalessin, giornalista da prima linea, l’ha vissuto sulla sua pelle dall’Afghanistan al Kosovo. Nel 1983, quando abbiamo iniziato ad appassionarci assieme ai reportage di guerra, eravamo al seguito dei mujaheddin, i partigiani afghani che combattevano gli invasori dell’Armata rossa. Vestiti come loro, con tanto di turbante, mangiavamo quel poco che passava il convento e rischiavamo la pelle sotto i bombardamenti aerei dei sovietici, per raccontare una delle tante guerre dimenticate di allora. Centinaia di chilometri a piedi e un po’ a cavallo, fra i monti e pietraie afghane, dove il caldo soffocante di giorno ed il gelo di notte ti facevano schiattare. Per portare a casa la pelle ed il pezzo valeva solo un motto: marcia o muori. Una quindicina d’anni dopo nel Kosovo serbo, dove nasceva la guerriglia indipendentista Gian ed io ci siamo ritrovati di nuovo assieme in prima linea. Dopo essere finiti in un’imboscata dai serbi, con i proiettili traccianti che schizzavano davanti ai piedi, ci siamo salvati per miracolo. L’unica via di fuga erano le Alpi “maledette” al confine con l’Albania. Un tragitto impervio e pericoloso da percorrere di notte, perché all’alba gli elicotteri sono venuti a cercarci come avvoltoi. Anche questa volta, marcia o muori e ce l’abbiamo fatta, portando a casa un buon reportage. La bravura e la dedizione di Gian nel giornalismo di guerra è nata con la scuola dell’Albatross, un’agenzia di tre giovani free lance triestini che volevano girare il mondo, raccontare i conflitti e guadagnarsi la pagnotta alla rincorsa di una vita spericolata, come cantava Vasco Rossi. Micalessin è uno dei tre e quando iniziò questo mestiere lo chiamavamo affettuosamente “Gian banana”, per il suo ardito ciuffo di capelli. Oggi ha 46 anni, una pelata come Jul Brinner e quasi un quarto di secolo di giornalismo in prima linea alle spalle. Con i suoi articoli e reportage filmati ha raccontato oltre trenta conflitti documentando le guerre più famose e quelle più ignorate. In Mozambico, il 19 maggio 1987, abbiamo perso il pilastro dell’Albatross, Almerigo Grilz, il primo giornalista italiano ucciso in battaglia dalla fine della seconda guerra mondiale. Anche Gian ha avuto le sue disavventure come nello Yemen, in guerra fra nord e sud, quando l’hanno sbattuto in una sordida galera non molto diversa dai tempi avventurosi di Lawrence d’Arabia. Oppure in Somalia, dove per settimane non sapevamo più nulla di lui e guardavamo sconsolati le mappe del desolato paese del Corno d’Africa travolto dal caos della guerra civile. Per non parlare dell’Iraq, quando per raggiungere i soldati italiani a Nassiryah ha sfidato la rivolta degli estremisti sciiti dell’Esercito del Mahdi. Ogni volta è riuscito a cavarsela affinando il suo modo di scrivere e trasformando gli articoli dal fronte in racconti tragici ed entusiasmanti allo stesso tempo. Indimenticabili i pezzi sul genocidio in Ruanda con braccia e gambe delle vittime sepolte sbrigativamente nelle fosse comuni, che spuntavano dalla terra e diventavano pasto per i cani. Oppure da Grozny, dove ha raccontato la guerra spietata, fra ceceni e russi, una vera bestia nera che fa venire un brivido lungo alla schiena a tutti i reporter che l’hanno vissuta. Gian non è solo un giornalista di penna. All’Albatross si è fatto le ossa con le vecchie macchine fotografiche reflex e poi ha raccolto da Almerigo il testimone dei reportage filmati. I suoi sono gli “occhi” della guerra come dimostrano le prime foto di battaglia dalla giungla birmana dei partigiani Karen, oppure i filmati nei Balcani. Un cacciatore di immagini , che non si inventerà mai un pezzo da prima linea al bordo della piscina dei grandi alberghi. Il Medio Oriente lo ha rapito e assieme siamo tornati a vivere i reportage sulla prima Intifada dividendoci ogni mattina il fronte palestinese o israeliano, Gaza o Ramallah, Gerusalemme est ed ovest. Una volta l’hanno scambiato per israeliano nelle roccaforti palestinesi, ma un’altra riusciva ad intervistare il bombarolo del Jihad o delle brigate di Hamas super ricercato. In Libano girava con un ex miliziano cristiano, ottima guida nel sud roccaforte degli sciiti, mentre altri colleghi si facevano imbeccare da interpreti partigiani. Finalmente ha messo a frutto la sua esperienza sul terreno per scrivere “Hezbollah, il partito di Dio del terrore e del welfare”. Il problema è che Gian non ha mai tempo, fra articoli e filmati, neppure, come lui stesso scrive, di sposarsi e fare figli. La sua vita è il campo di battaglia.

FAUSTO BILOSLAVO







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