I libri degli altri
Un popolo nella notte
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autore: Giorgio Paolucci
editore: San Paolo
anno: 2008
pagine: 136
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Lo stadio dove al calare del giorno la gente arrivava a frotte, spesso cantando, e non per una partita di calcio. Un fiume umano nella notte, che si muoveva lentamente ma senza sosta da Macerata a Loreto. Un fiume illuminato dalle fiaccole di chi ha fede, le luci nel buio della notte. La vita contro le tenebre della morte, non solo quella che un giorno attende tutti noi come estremo passaggio verso qualcos’altro, ma lo stillicidio quotidiano fatto di tradimenti piccoli e grandi, meschinità, arroganza, menefreghismo. Infine i primi raggi del sole che rimbalzano sui gradini della basilica di Loreto e riscaldano le membra intorpidite dal lungo cammino. Sono i ricordi incancellabili del mio pellegrinaggio nel lontano 1990.
Di mestiere faccio il giornalista di
guerra, ed ero reduce da una brutta storia a Kabul, dove
l’anno prima avevo raccontato il ritiro delle truppe di
invasione sovietiche che si lasciavano alle spalle un milione
di morti. Qualcuno pensò bene di farmi la pelle
tirandomi sotto con un camion militare, ma seppure per
poco non ci riuscì. Per sei mesi ho vissuto su una sedia
a rotelle e i medici scuotevano la testa sulle probabilità
di potere ancora camminare normalmente. Forza di volontà,
fede, voglia di tornare a fare il mio lavoro e l’abilità
di un fisioterapista di Trieste, la mia città, smentirono
le malauguranti previsioni. Le ferite si rimarginarono,
anche se ancora oggi mi tormentano, e tornai a
camminare sulle mie gambe.
Volevo ringraziare per il miracolo di essere sopravvissuto
a Kabul, ma avevo ancora bisogno di chiedere
aiuto, di sperare in una vita più o meno normale, nella
costruzione di una famiglia, di poter concepire dei figli
nonostante le lesioni incise nelle carni. Per questi motivi
ho partecipato al Pellegrinaggio trovandomi con orgoglio
al fianco di un ospite cinese, un dissidente che continuava
a lottare contro un regime comunista, pochi
mesi dopo il crollo del muro di Berlino.
La luce delle fiaccole che illuminavano il cammino e
il buio pesto della notte che ci circondava li avevo già
visti, o li ho ritrovati in seguito durante i reportage di
guerra vissuti in prima linea fra vittime e carnefici. In
tutti i conflitti che ho raccontato dall’Africa ai Balcani,
dall’Afghanistan all’Iraq, c’erano sempre luce e buio,
che hanno segnato il mio cammino di umile «pellegrino» dell’informazione.
Il buio del genocidio in Ruanda, per esempio,
quando ai posti di blocco degli squadroni della morte se
avevi una carta d’identità dell’etnia sbagliata ti facevano
fuori a colpi di machete. La luce negli occhi spauriti,
ma vivi, di un bambino, l’unico sopravvissuto di
un intero villaggio. I suoi abitanti avevano cercato rifugio
nella chiesa di Nyarubuye, ma erano stati orribilmente
massacrati, compreso il prete sull’altare. A un
neonato avevano mozzato la testa per portarsela nella
foresta dove gli sterminatori praticavano assurdi riti.
Quattrocento cadaveri, uno spettacolo terribile, ma un
bambino era scampato alla mattanza e una volta tanto
i giornalisti hanno fatto qualcosa di buono portandolo
in salvo, lontano da quell’inferno.
Oppure il buio delle galere di Kabul dove ho passato
sette mesi ai tempi dell’occupazione dell’Armata Rossa.
Mi avevano catturato dopo un lungo reportage con i
mujaheddin dell’indimenticabile comandante Ahmad
Shah Massoud, la prima vittima dell’11 settembre. Il 90
per cento dei miei compagni di cella, quasi tutti ribelli
islamici, erano stati torturati. Alcuni di loro si innamorarono
di una foto di Giovanni Paolo II e mi chiesero:
«Chi è? Abbiamo sentito parlare di quest’uomo vestito
di bianco. Si tratta di un vostro ayatollah?». Cercai di
spiegare cosa rappresentava il papa per i cattolici e alla
fine mi permisero di pregare con loro, rivolti verso La
Mecca, facendomi il segno della croce. Prima di venire
rilasciato mi cucirono nei pantaloni un messaggio per il
papa. Un grido di dolore dalle prigioni di Kabul, vere e
proprie catacombe moderne. Grazie a don Massimo
Camisasca e a monsignor Giovanbattista Re incontrai a
quattr’occhi il Santo Padre, sui monti dove amava
sciare. AGiovanni Paolo II riportai il grido di dolore dei
dimenticati di Kabul, molti dei quali non ho più ritrovato,
sepolti nelle fosse comuni a pochi chilometri dal
penitenziario di Pol i Charki.
L’Afghanistan è stato anche luce, quando il 13 novembre
2001 compivo quarant’anni entrando nella capitale
liberata dai talebani. Le donne, pur sempre avvolte
nel burqa, cominciavano a camminare libere, da
sole, senza temere di venire frustate per avere mancato
di rispetto a un’assurda interpretazione della sharia.
In ogni reportage il buio ritorna come gli occhi,
senza più lacrime, di un bambino iracheno che non
c’entrava nulla con la guerra, ma ha perso metà del
braccio per colpa di una granata inglese. Però è riap-
parsa anche la luce, quando gli iracheni cominciavano
ad assaporare la libertà, ballavano per strada rendendosi
finalmente conto di essersi scrollati di dosso un
sanguinario dittatore, oppure rischiavano la vita, in fila
davanti ai seggi per votare. Purtroppo non è bastato per
riportare la pace.
Il Pellegrinaggio partito da Macerata mi è rimasto
nel cuore, perché nonostante la stanchezza, i piedi
gonfi, le gambe doloranti sono riuscito ad arrivare a Loreto
per rivolgere una supplica, una preghiera. Non sapevo
ancora come, ma volevo costruire una famiglia,
avere dei figli e continuare a vivere la mia passione, il
giornalismo di guerra. Le vie del Signore sono veramente
infinite, perché questa supplica si è realizzata nel
corso degli anni. Pur combattendo contro le ferite ho
continuato a girare il mondo, a raccontare la luce ed il
buio di ogni guerra. Alla fine dei bombardamenti per il
Kosovo mi sono sposato con Cinzia, che accetta di portare
la croce di un marito spericolato. Prima di partire
per la strage di Nassiriya ho saputo che stava arrivando
Beatrice, nostra figlia.
Nel 1990, davanti alla folla di pellegrini nello stadio
di Macerata, ripetei le parole di un proverbio di Confucio.
Lo avevo fatto mio valicando i passi di cinquemila
metri sulla catena afghana dell’Hindukush, assieme
ai mujaheddin: «Non temere di avanzare lentamente,
ma temi di fermarti». Un insegnamento che valeva
per il cammino di quella notte e per quello, ben più
impegnativo, della vita.
FAUSTO BILOSLAVO